Il calcio si diverte a farsi rappresentare, sui campi e fuori, da personaggi incompresi. O presunti tali. Per sua natura, essendo lo sport più popolare da praticare, il calcio ha sempre rappresentato un motivo di riscatto, una possibilità per gli emarginati o comunque per chi, in condizioni di povertà, voleva semplicemente trascorrere qualche ora di libertà. C’è poi chi quella libertà l’ha trasformata in un lavoro, da professionista, e chi invece l’ha tenuta per quella che è. Nella prima categoria rientra poi un ventaglio di accezioni che possono dare libero sfogo in svariati nomi di, appunto, calciatori incompresi.
E quando pensiamo a uno di quelli che più si lascia avvicinare all’imperscrutabilità della propria carriera e delle proprie qualità non possiamo non riferirci a Nicolas Anelka. Perché – come scrive Mario Petillo su “Goal.com” – per spiegare la carriera di quel giocatore che oggi si chiama Abdul-Salam Bilal, dopo la conversione all’Islam, non basterebbe forse una giornata intera. Senza interruzioni per i pasti comandati.
14 squadre in 20 anni, tra cui il record per l’aver disputato la Champions League con il massimo numero di società di sempre, per un calciatore: sei, come Zlatan Ibrahimovic. Quasi come lo svedese, Anelka ha girato il mondo, giocando in Francia, Inghilterra, Spagna, Turchia, Cina, Italia e India. Dalle periferie di Parigi, dai sobborghi abitati da immigrati, come i suoi genitori, al Trappes che lo ha fatto esordire in un calcio polveroso, ai grattacieli di Dubai, il sogno di qualsiasi imprenditore di sé stesso del 2021. Poi Netflix decide di raccontare la sua vita in un documentario: un’operazione che, soprattutto se guardiamo il catalogo a disposizione su Amazon Prime Video, vede anche personaggi come Fernando Alonso e Sergio Ramos inerpicarsi in questo vezzo di puro egocentrismo documentaristico.
Anelka finisce per raccontarsi come incompreso e incomprensibile, perché la sua carriera, un saliscendi di emozioni e di incertezze, non l’abbiamo capita in tanti, a essere sinceri. Eppure, la sua carriera era iniziata con le migliori prospettive, partendo dal Paris Saint-Germain, che lo portò a esordire ad appena 16 anni. Un prodigio che già aveva conquistato la Ligue 1 e non mancò di farsi apprezzare anche oltremanica, precisamente all’Arsenal. Sotto l’egida di Arsene Wenger, che di talenti se ne intendeva, Anelka a soli 18 anni era stato scelto per essere il nuovo talento dei Gunners, per una cifra pari a 500.000 sterline.
L’Inghilterra di talenti così ne strappava a più non posso (dall’Italia ci aveva provato con Macheda e Dalla Bona), ma non sempre andava bene. Quella volta Wenger indovinò la mossa. Ma non si ferma qui, Anelka, perché nel 1999 per 22,3 milioni di sterline si trasferisce al Real Madrid, voluto da Vicente del Bosque. Qui, con la maglia blanca, quella con la quale in molti cadono (chiedete anche ad Antonio Cassano), si iniziano ad accusare i primi grandi colpi di testa e le prime tensioni in una carriera che, col senno di poi, si stava presentando claudicante sin da subito. Anelka si rifiuta di allenarsi per tre giorni di fila e l’allenatore è costretto a sospenderlo per 45 giorni: un mese e mezzo senza poter indossare la maglia delle merengue. Salta la maggior parte delle gare del girone di ritorno della Liga, ma si toglie la soddisfazione di essere il primo marcatore della storia della Coppa del mondo per club FIFA, competizione che si apre proprio con la vittoria del Real Madrid contro l’Al Nassr, tra l’altro diventando il primo capocannoniere della manifestazione a pari merito con Romario. Nonostante gli screzi con del Bosque, nel finale di stagione si rivela fondamentale anche per la vittoria della Champions League, con un trionfo in finale contro il Valencia, ma la rottura è inevitabile, quel cartello “vendesi” lo indossa in ogni momento della sua vita, e a fine stagione Anelka torna a Parigi, al PSG, per 20 milioni di euro. Non dura molto, nemmeno a casa sua.
La storia di Anelka d’altronde è costellata di problematiche ambientali, ma ancora di più tattiche. D’altronde lui giocava in un solo ruolo e pretendeva che non ve ne fossero altri per lui. Se è famosa la pretesa avanzata a Scolari, all’epoca suo allenatore al Chelsea, di trovare una soluzione affinché potesse coesistere in campo con Drogba, lo è altrettanto anche la sfuriata con Domenech, Ct della Francia, che pensava di potergli chiedere di fare uno sforzo in fase di copertura. Sul secondo si sono scritte intere prime pagine di dissenso, di offese e di ingiurie, per una frattura che spinse l’attaccante lontano dalla sua patria. Sul primo aspetto, Carlo Ancelotti fu in grado di trovare una soluzione, permettendo ad Anelka di coesistere con Drogba e reinventandosi una seconda punta che arrivò a definire tra le più complete, con grande dote di finalizzazione, ma anche capace di buoni movimenti in mezzo al campo. L’ambiente è sempre quello del Chelsea, di certo la squadra con la quale Anelka ha saputo sbocciare in maniera definita. A trent’anni. Veniva da un anno e mezzo in Turchia, al Fenerbahçe, poi due stagioni al Bolton. Con la maglia dei Blues sfiora la vittoria della Champions League, sbagliando il rigore decisivo contro il Manchester United in finale, a Mosca, nel 2008.
L’anno successivo si riscatta, a livello personale, e diventa capocannoniere della Premier League con 19 reti, complice anche l’infortunio che ferma Drogba e lascia molto più spazio al francese. Il gol decisivo lo trova all’ultima giornata, contro il Sunderland, strappando il titolo di capocannoniere a Cristiano Ronaldo, che si ferma a 18. Il gol realizzato è voluto, preteso, cercato: recupera palla a centrocampo, ne supera due, ragiona, riflette, poi arriva al limite dell’area e col destro va dritto all’incrocio dei pali. Anelka era questo: lui, prima di tutto, i suoi risultati anteposti a qualsiasi altro aspetto. Forse questo, in qualche modo, l’abbiamo compreso. Un altro aspetto che è facile comprendere di Anelka è che sul campo si era meritato l’appellativo di “Le Sulk”, quello che gli avevano dato in Inghilterra quando era giovane, quando era ancora in erba. Lo avevano chiamato così perché aveva sempre il broncio, era sempre scontroso e con in volto un’idea contrariata nei confronti del mondo.
Qualcuno racconta che in realtà, quello che lo portava a essere così, era l’esser stato, ancora una volta, incompreso. Voleva giocare a calcio, divertirsi e scendere in campo col sorriso, non preoccuparsi di ciò che succedeva fuori, dagli sponsor alla stampa. Anelka, inoltre, è stato in grado di ritrovarsi spesso nel bel mezzo di vicende di calciomercato abbastanza surreali, come il famoso mancato trasferimento alla Lazio nell’estate del 1999. Come dicevamo, il suo futuro quell’anno si colora di blanco, con del Bosque che proprio non può fare a meno di acquistarlo.
Eppure, quel ventenne talento dell’Arsenal era prontissimo a raggiungere la capitale italiana, sponda biancoceleste: l’agente Fifa Vincenzo Morabito l’aveva dato praticamente per fatto come trasferimento. C’è lui a gestire la trattativa per la Lazio, che dopo aver perso Vieri, andato all’Inter, ha bisogno di inserire un grande attaccante al proprio scacchiere. Anelka, però, è già una miniera, lo hanno capito i familiari, lo hanno capito tutti quelli che gli stanno intorno: un’altra cosa che era stata compresa sin da subito. Sono due procuratori, un avvocato e due fratelli. Capiscono che la richiesta c’è, che a 20 anni quel giocatore può diventare un lingotto, o forse anche due. “La Lazio è un club prestigioso, una squadra fatta di campioni. Mi piace Eriksson: il suo calcio è adatto alle mie caratteristiche. Sarebbe bello giocare con Salas, un grande attaccante”.
Anelka è chiaro, così come lo è nel dire che “la Juventus non mi interessa”. Cragnotti, all’epoca presidente della Lazio, lo aveva dato quasi per fatto: “Abbiamo fatto una grande offerta e stiamo facendo di tutto con l’Arsenal per chiudere la trattativa”. Mentre, quindi, si annunciavano Veron e Sensini, cresceva l’attesa per far sì che quel matrimonio diventasse realtà: “Con o senza Anelka, questa Lazio è più forte della scorsa stagione” dice Cragnotti, che alla fine dovrà accontentarsi del solo Salas. L’Arsenal accetta i 22 milioni di sterline del Real Madrid (50 miliardi di lire circa) e con quei soldi va ad acquistare Thierry Henry. L’ambiente biancoceleste non si era fatto spaventare da quel giocatore che problemi ne avrebbe dati e forse la ferita rimase così tanto aperta che quando nel 2014 ci riprovarono era perché si sentiva, nella capitale, che c’era ancora un sogno mai sopito. Però all’epoca le critiche, a predersele, fu Claudio Lotito. “L’accostamento Lazio – Anelka è un’offesa al calcio italiano” aveva scritto su Twitter Vittorio Pavoncello, presidente del Maccabi Italia, in rappresentanza della comunità ebraica. Anelka, infatti, si fatto additare con un altro aggettivo: quello di antisemita.
A 33 anni, dopo una serie di saltelli tra cui una comparsata alla Juventus per un totale di tre partite e uno Scudetto inserito in bacheca, la carriera dell’attaccante francese gli riserva ancora un’ultima polemica. Veste la maglia del West Bromwich Albion, torna in Premier League per l’ennesima volta, e dopo aver segnato al West Ham nel 2013, Anelka si lascia andare a un’esultanza che imita la “quenelle”, a oggi riconosciuto come “gesto volgare”, introdotto nel 2005 dal comico francese Dieudonné: un’offesa ai sionisti che divenne rapidamente una variante del saluto nazista e un sostegno ai vari movimenti antisemiti. Dieudonné l’aveva resa popolare durante la campagna antisionista in occasione delle elezioni europee del 2009 in Francia e venne adottato anche dal politico xenofobo Jean-Marie Le Pen. Uno sponsor del WBA ( Zoopla , fondata da Alex Chesterman, di religione ebraica) decide di risolvere il contratto con la società dopo l’esultanza di Anelka, lo stesso club attacca il proprio tesserato e al giocatore arrivano cinque giornate di squalifica, 80mila sterline di multa e poi il licenziamento per giusta causa.
La Football Association lo costringe anche a seguire un corso di educazione, come se fosse un carcerato da riabilitare alla vita etica e in pubblico. Da lì in avanti, Anelka si allontana da qualsiasi prima pagina, dopo averne conquistate molte in carriera. Viene ingaggiato dall’ Atletico Mineiro, ma dopo una settimana il suo contratto viene risolto perché assentatosi dalle sedute di allenamento, poi dal Brasile va in India, per firmare con il Mumbai City, per il neonato campionato indiano. Dura un anno, giocando sette partite, e poi si svincola di nuovo. È l’ultimo capitolo, perché all’età di 35 anni, con una Champions League in tasca, due campionati inglesi, un campionato turco, un campionato italiano, svariate coppe, tra cui una Intertoto vinta in finale contro il Brescia nel 2001, un Europeo di calcio, Nicolas Anelka decide di non scendere più in campo. Nicolas Anelka è come tutti i grandi talenti del gioco del calcio: una testa che avrebbe voluto solo divertirsi, senza preoccuparsi delle conseguenze. L’immaturità prestata al talento, al quale se avessimo messo una testa più pensante e con più paletti, forse non sarebbe mai esploso. Sarà stato incompreso per tutta la sua carriera, ma c’è stato un momento in cui abbiamo davvero pensato, forse esagerando, che fossimo dinanzi a un grande campione. E a farcelo credere erano stati anche i soldi, oltre che Carlo Ancelotti. “Ancelotti mi ha offerto una seconda possibilità. Devo ringraziare lui e il Chelsea se vengo considerato un giocatore di valore mondiale”.