“Sei un fascista! Sei un maledetto fascista!” gli urla qualcuno per strada. L’aria, in Cile, sta finalmente cambiando: dopo quindici anni di spietata dittatura, si terrà un referendum per la concessione di un nuovo mandato presidenziale ad Augusto Pinochet, e in tanti spingono per il No. Eppure, il mondo dello sport è piuttosto compatto per il sostegno al dittatore. “Come sportivo, come il vincente che sono stato per tutta la vita, voterò sicuramente Sì, perché voglio un paese vincente” aveva detto pochi giorni prima. Parole che pesano come macigni – come scrive Valerio Moggia su “Pallonate in faccia” – a pronunciarle è il più grande calciatore della storia cilena, Elías Ricardo Figueroa. Insolito, per il Sudamerica: siamo abituati a immaginarlo come il regno dorato di trequartisti, mentre Figueroa era un difesore centrale. Ma totalmente fuori dagli schemi: altissimo, praticamente insuperabile in uno scontro fisico, eppure capace di controllare il pallone come un centrocampista, portava palla e leggeva il gioco come un regista, e pure di alto profilo.
Non sbagliava un passaggio. E, se si azzardavano a pressarlo, era capace di dribblare in scioltezza anche un paio di avversari. Gli europei, che lo scoprirono ai Mondiali del 1974, lo paragonarono a Franz Beckenbauer, ma il tedesco era stato arretrato in difesa solo verso la fine degli anni Sessanta, quando Figueroa interpretava quel ruolo già da un lustro. Nativo di Valparaíso, Don Elías aveva iniziato a giocare a calcio nel 1963, appena sedicenne, nel Santiago Wanderers, e nel giro di un anno era entrato nei ranghi della nazionale cilena, reduce dal terzo posto ai Mondiali casalinghi.
Nel 1967, era già uno dei calciatori più apprezzati di tutto il Sudamerica, e venne acquistato dagli uruguayani del Peñarol, ai tempi il club più forte al mondo, dove si affermò come uno dei giocatori più forti del continente. Figueroa è cresciuto in una famiglia della classe media di un paese storicamente legato agli Stati Uniti, e le sue tendenze conservatrici rispecchiano questo retroterra culturale.
Dietro le pressioni americane, la politica cilena aveva già provato a escludere i comunisti dalle elezioni nei primi anni Cinquanta, ma senza grande successo. La sinistra si era riformata nella coalizione Unidad Popular, che nel 1970 aveva sostenuto la candidatura a presidente di Salvador Allende, propugnatore di una via democratica al socialismo che potesse far uscire il paese dalla crisi economica. Durante questa svolta politica, Figueroa giocava all’estero, prima in Uruguay e poi, dopo il 1972, in Brasile, con l’Internacional di Porto Alegre.
Le difficoltà economiche del paese e l’allontanamento dal blocco occidentale misero in allarme soprattutto la borghesia, che fu la prima a spingere per una restaurazione conservatrice, che sfociò, nel 1973, nel golpe militare sostenuto dalla CIA, che portò al potere Pinochet. Da uomo di calcio, Figueroa giocava e raccoglieva trofei – il suo secondo campionato Gaúcho e il titolo di miglior difensore del Sudamerica – e non parlava di politica.
Ma come stella e leader della nazionale, la sua simbiosi con il regime divenne presto indissolubile. A pochi giorni dal golpe che aveva trasformato lo stadio Nacional di Santiago in un campo di concentramento in cui venivano torturati gli oppositori politici, il Cile strappò un pareggio per 0-0 a Mosca contro l’Unione Sovietica, nella sfida di qualificazione ai Mondiali tedeschi dell’anno seguente.
I russi rinunciarono a giocare il ritorno, come forma di protesta contro il regime, il Cile vinse 2-0 a tavolino e si qualificò; ma il governo volle lo stesso che la squadra scendesse in campo e giocasse, anche contro nessuno, in segno di sfregio verso i comunisti. Figueroa acconsentì senza battere ciglio, e convinse i suoi compagni a fare lo stesso. Quei Mondiali, che segnarono la sua consacrazione – fu eletto miglior difensore del torneo, e poco dopo premiato come miglior calciatore sudamericano dell’anno – lo avevano reso uno dei grandi vanti della dittatura.
Fascista? Forse no, forse è solo uno che di politica capisce poco e pensa un governo forte e conservatore sia una buona cosa per il paese: si parla spesso di come il culto della disciplina, della forza e delle gerarchie insegnato negli sport di squadra si sposi bene con la forma mentis della destra autoritaria.
Di sicuro, il regime di Pinochet si impegnava molto per usare i suoi atleti come asciugamani puliti con cui lavarsi il sangue dalla faccia; e altrettanto di sicuro, a Figueroa tutto ciò dava meno fastidio che ad altri. L’ala sinistra del Colo-Colo Leonardo Véliz, notoriamente di sinistra, ebbe molti problemi con le autorità, e dopo il golpe passò tre giorni chiuso in casa per paura di essere aggredito in strada. Carlos Caszely, anche lui sostenitore di Allende, appena gli fu possibile lasciò il paese per trasferirsi in Spagna al Levante. All’Internacional, tra il 1972 e il 1976, Figueroa si affermò come uno dei più forti giocatori sudamericani del tempo: disputò 336 partite, segnando 27 reti.
Dalla sua comoda casa brasiliana – dove comunque era al potere un’altra dittatura militare fascista – Figueroa si perse tutta la fase più brutale del regime. Quando rientrò in Cile, nel 1977 per giocare nel Palestino, il potere di Pinochet si era stabilizzato e il ritorno in patria di Don Elías – il cileno più famoso e amato al mondo – era un spot perfetto per dimostrare la forza e l’autorevolezza del paese, e anche per recuperare parte del consenso popolare. Il regime era entrato nella sua lenta fase di declino: tre anni dopo, Pinochet decise di indire un referendum per la nuova Costituzione, una concessione che faceva al popolo che, dietro la promessa di libertà, nascondeva i meccanismi per permettergli di rifarsi una verginità democratica e mantenere così il potere.
In quell’occasione, Figueroa e il ct della nazionale Luis Santibáñez pubblicarono una lettera di appoggio alla giunta militare, invitando i cittadini ad approvare la nuova Costituzione. Ecco perché, otto anni dopo, nessuno si meraviglia più di tanto che, ancora una volta, Figueroa stia dalla parte del dittatore. La campagna per il Sì ne fa la sua principale bandiera: lui che, dopo una breve esperienza negli Stati Uniti, nel 1981 è tornato a chiudere la carriera in Cile (ovviamente nel Colo-Colo, la squadra più vicina al regime, in questo momento) e traghettare la nazionale ai Mondiali del 1982, prima di ritirarsi. Sull’altro fronte, quello del No, ci sono Caszely e sua madre Olga Garrido, che in un’intervista televisiva rivela l’arresto e le torture subite dai fascisti a causa delle sue idee politiche. Il paese è cambiato, ed Elías Figueroa non l’ha capito: il No vince con il 56% dei voti, e Pinochet deve farsi da parte.
Rispetto ad altri dittatori sanguinari del Novecento, gli andrà piuttosto bene: lascerà la carica solo nel 1990, mantenendo per altri otto anni quella di comandante in capo dell’esercito, per poi farsi nominare senatore a vita e ottenere l’immunità parlamentare. Solo nel 2004 la magistratura riuscirà a metterlo sotto processo per crimini contro l’umanità, ma a causa delle sue gravi condizioni di salute non arriverà mai a giudizio, morendo nel giro di due anni.
Bene o male, nei trent’anni che seguiranno, Elías Figueroa farà tutto il possibile per affrancarsi dal suo sostegno a Pinochet. Più volte invitato a candidarsi alle elezioni, sempre per partiti di destra, rifiuterà saggiamente. Darà invece vita a Gol Iluminado, una fondazione che si occuperà di educazione attraverso lo sport, di inclusione e tolleranza etnica, soprattutto nei confronti degli indigeni, e di lotta al povertà. Si schiererà in favore del calcio femminile, riconoscendo il problema del maschilismo nella società cilena. E, sulle proteste sociali del 2019, ricorderà la necessità di trovare soluzioni per costruire “un paese più giusto, unito, sano e felice per tutti”.