Sono nato a Città del Messico. Questo non fa di me un essere speciale, ovvio, ma fa di me un Messicano. Quello che mi rende speciale, diverso dai miei connazionali, almeno da quelli della mia generazione, è un altra cosa: io sono sempre stato un anticonformista. Al giorno d’oggi è molto più semplice, essere anticonformisti dico. Anche se mi guardo in giro e vedo così tanti anticonformisti che mi sembra si siano tutti uniformati all’anticonformismo. Mi sembra che per non voler essere come gli altri alla fine si sia finito per essere tutti uguali un’altra volta. Comunque polemiche a parte, negli anni Settanta no, non era così. Si rischiava di essere emarginati. In Messico poi! Io certo sono stato avvantaggiato nelle mie scelte. Un futbolista ha più libertà. Comunque vi assicuro che non è stato per nulla facile.Mi chiamo Leonardo Cuéllar. All’anagrafe Leonardo Cuéllar Rivera. A molti di voi questo nome non dirà assolutamente nulla. Del resto così come la figurina dell’album del Mundial di Argentina Settantotto che hanno scelto di utilizzare a corredo di questa mia storia. Se non altro capirete attraverso quest’immagine che tipo di persona ero. Non passavo certo inosservato con il mio look “Afro” e la barba lunga. Certo, anche i baffi! Non volevo allontanarmi dallo stereotipo classico del Messicano coi baffi! Un mio amico e compagno, Ángel Fernández, mi aveva ribattezzato Leo “el León de la Metro”. Bravi, avete capito. Il leone ruggente. Diceva che gli rammentavo l’inizio delle pellicole hollywoodiane della Metro Goldwyn Mayer. Direi, e sarete d’accordo con me, che il buon Ángel ci aveva visto proprio giusto. Mai soprannome fu più azzeccato! Ma non sono sempre stato così!
Quand’ho iniziato, con il Club de Fútbol Universid Nacional, i “Pumas”, avevo i capelli con la riga al lato, ben pettinati. È quando sono tornato dai Giochi Olimpici di Monaco del millenovecentosettantadue che ho sorpreso tutti con il mio nuovo look.Venni in contatto con atleti provenienti da tutto il mondo, tanti stili di vita, tante culture, tanti modi di vedere la vita. Fu esaltante venire in contatto con tanta diversità. In realtà quelle Olimpiadi estive non sorpresero solo me, ma tristemente tutto il mondo. Sono passate alla storia come il “Massacro di Monaco”. Brutta storia quella. Un commando di terroristi di un organizzazione Palestinese, mi pare si chiamassero “Settembre Nero”, fa irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico uccidendo due atleti e prendendo in ostaggio gli altri nove. Come volete che sia finita. Quando di mezzo ci sono le guerre ci rimettono sempre gli innocenti, o quasi. La polizia tentò un’incursione e tutti gli ostaggi vennero uccisi, insieme a cinque fedayyin del commando. Brutta storia davvero. Come potevano non cambiarmi quei Giochi Olimpici. Al mio ritorno in Messico, mio malgrado sono diventato una delle icone popolari dell’epoca! E mica solo in Messico! Chi lo avrebbe mai immaginato.
Ero un futbolista con una condizione fisica eccezionale. Riuscivo a servire i miei compagni con passaggi precisi, filtranti, e vedevo molto bene anche la porta. Quando correvo in campo la mia capigliatura era davvero come la criniera di un leone, e mi sentivo un leone, ero un leader indomito. Non c’è stato anno che non venissi insignito del “Citlalli”! Come cos’è? Il trofeo “Citlalli”, il Balón de Oro! È un riconoscimento che la Fedeazione messicana assegnava al miglior giocatore messicano del torneo! Ecco cos’è! Tutto questo ha fatto sì che venissi selezionato per difendere “la Tricolor” per più di dieci anni. Almeno l’avete capito cos’è la “Tri”? Bravi! Durante la mia carriera da futbolista ho sposato una bella bionda americana. Anzi statunitense! Vi ho detto che la mia migliore caratteristica è l’anticonformismo, no! Un messicano che sposa una statunitense. In quegli anni, ma anche oggi, quel bel paese liberale che va sotto il nome di Stati Uniti ci considerava come servi, schiavi.
Quindi era naturale che fosse considerato molto sopra le righe. La cosa più bella era che durante la pausa del campionato messicano io potevo attraversare il confine e giocare a soccer nella Lega Americana. Nel millenovecentosettantasei ho vinto il titolo con i “Pumas”, ma, senza dubbio alcuno la grande notorietà è arrivata con il Mundial dei Colonnelli in Argentina. Il mio look, il mio modo di vestire, attiravano l’attenzione e tutti volevano intervistarmi. Pensate che indossavo sotto l’abito ufficiale della Nazionale messicana delle scarpe bianche. Io e due altri miei compagni. Oggi sarebbe facile, siamo tutti anticonformisti. Quarant’anni fa invece ricevetti critiche inaudite. Ad ogni modo mi considero un pioniere! Ecco le note dolenti! Parlare di quell’avventura mi costa molto, davvero. È come riaprire una vecchia dolorosa ferita. Noi abbiamo certo le nostre responsabilità perché in campo c’eravamo noi, ma non bisogna essere ipocriti, non avevamo alcun tipo di pianificazione, eravamo un gruppo giovanissimo e soprattutto arrivammo con delle aspettative da parte di tutti davvero troppo esagerate, dal Presidente del Paese, allora José López Portillo, ai mezzi di comunicazione, neanche avessimo dovuto vincerlo quel Mundial!
Il problema fu paradossalmente che ci arrivammo troppo bene, così bene che si potrebbe tranquillamente dire che il culmine lo avevamo già raggiunto e al torneo vero e proprio ci trovammo nella classica fase discendente. Era una “Tri” ricca di giocatori di talento ma troppo acerbi, il giocatore più esperto aveva ventotto anni e la nostra linea d’attacco, in cui giocava quel simpaticone di Hugo Sánchez, era composta da elementi di vent’anni appena. Aggiungete a questo che ci trovavamo in un gruppo un po’ complicato, con Tunisia, Germania Ovest e Polonia. Della Tunisia non conoscevamo nulla. Tutti dicevano che fossero l’anello debole. Invece la maggior parte dei calciatori tunisini giocavano in Francia e non erano così scarsi. Quando si parlava di Germania Ovest si parlava dei campioni uscenti trascinati dal gruppo del Bayern Monaco e la Polonia era quella squadra magnifica che aveva vinto le Olimpiadi a Monaco, una generazione meravigliosa di calciatori, forse la migliore della storia di quel paese.
Molti hanno detto ci fossero delle spaccature all’interno del gruppo. Ma io vi dico che sono cazzate! Noi eravamo arrivati lì per onorare il nostro paese. Un problema lo abbiamo avuto, vero, ma riguardava lo staff tecnico. Avevamo due preparatori atletici e pure con idee diverse! Immaginate che confusione. Comunque, la prima sfida ci vede affrontare la Tunisia, e il primo tempo lo chiudiamo in vantaggio. Io ho anche sbagliato una rete clamorosa, ma tant’è. Negli spogliatoi serpeggiava un certo malumore, la nostra preoccupazione era di riuscire a vincere con tanti goal di scarto “l’uno a zero non ci basterà per qualificarci perché sicuramente la Polonia e la Germania vinceranno di goleada”. Questo ci dicevamo.
Risultato, la Tunisia vince tre a uno. Ad oggi quella partita viene ricordata come la prima vittoria di una nazionale africana alla fase finale di un campionato del mondo. Proprio contro di noi, la“Tricolor”! Cercando di fare più goal ci esponemmo al loro contropiede. Voi Italiani avete la Corea, noi la Tunisia! Fu un colpo tremendo! Poi è arrivata la sfida con i tedeschi dell’Ovest. È finita sei a zero per loro! Andammo al riposo già sotto di tre reti e con il portiere titolare Pilar Reyes infortunato. Alla fine della gara il secondo portiere Pedro Soto, al rientro negli spogliatoi, incrocia Reyes che gli chiede com’è andata. “Abbiamo pareggiato!” gli risponde Soto. Incredulo Reyes chiede nuovamente “Ma abbiamo davvero pareggiato?” “Si”, risponde, “abbiamo pareggiato. Ne hanno fatti tre a te e tre a me!”. Ecco. Avremmo potuto difenderci, cercare un pareggio, ma dovevamo giocarla la partita se volevamo avere una possibilità. Alla fine ci fu la Polonia, una partita che non contava se non per l’orgoglio.
Perdemmo anche quella. Due a zero. I polacchi erano davvero forti! Io più degli altri ebbi problemi. Ero al centro del mirino come si dice. Non solo finivo spesso sui giornali, in più il mio carisma, il mio anticonformismo, i capelli lunghi, la barba, mi avevano reso attraente anche agli occhi degli sponsor. Eravamo in un epoca in cui non erano comuni le sponsorizzazioni, io però accetti l’offerta della Levi’s, non mi fregava nulla di quello che pensavano gli altri. Però agli altri fregava eccome! La cosa non solo fu vista male sin dall’inizio, ma poi, dopo le tre sconfitte, venni addirittura additato come uno dei responsabili di quella catastrofe. Noi messicani siamo focosi, nel bene e nel male. Il giorno della partenza per l’Argentina l’entusiasmo era straripante, ma, al nostro ritorno in Messico i tifosi erano inferociti, volevano ammazzarci. A me hanno dovuto mettere la polizia sotto casa per evitare che mi linciassero. Non rinnego nulla. Tutto quello che ho fatto lo rifarei cento altre volte: il look “Afro”, gli abiti particolari, lo sponsor personale, la moglie americana, le interviste… ma quelle scarpe bianche, dio mio, erano davvero troppo. Troppo anche per un anticonformista come me!
Fonte: “Fútbolismo”, Francesco Mistrulli