Il ricordo è quello di un metà agosto divenuto ormai quasi maggiorenne. Io che mi trovo a bordo della mitica Subaru Justy guidata da mio padre, mentre ci dirigiamo verso un negozio eugubino per fare degli acquisti. Mia madre, sedutagli di fianco, mi allunga la Rosea appena comprata dall’edicolante di fiducia. “Mi raccomando, stai attento a non sporcarti con l’inchios…” mi dice, interrompendo bruscamente la frase e aggiungendo giusto un rassegnato “ecco” non appena si accorge che i miei polpastrelli sono ormai abili al rilascio delle impronte digitali. Mi soffermo sulla prima pagina che è dedicata al nuovo acquisto della mia squadra del cuore: avverto interesse e al contempo imbarazzo. Ha un nome in perfetto stile brasiliano, difatti ci vogliono tempo e memoria per ripeterlo senza errori, ma in realtà è lo pseudonimo ad attirare la mia attenzione, ossia Kaká. I rossoneri sono freschi campioni d’Europa e le battutine si indirizzerebbero con più facilità verso i “cugini” che vivono un duraturo periodo di magra, ma il pericolo è dietro l’angolo. E se fosse un flop? Del resto lo stesso Luciano Moggi – non l’ultimo degli arrivati in tema di mercato – aveva snobbato il nuovo tesserato di via Turati con delle frasi categoriche: “… da noi, uno con un nome così, non potrebbe mai giocare” – e ancora – “… alla Juve non abbiamo voglia di Kaká, siamo stitici”.
Non sono mai stato un fautore del nomen omen ma, come se non bastasse, la foto stampata sulla prima pagina dello storico quotidiano sportivo non fa di certo ben sperare ed alimenta le perplessità. Nell’istantanea ci sono il dirigente Ariedo Braida – artefice dell’operazione, coadiuvato dalle belle parole spese da Leonardo – e il ventunenne brasiliano che dall’aspetto (altro luogo comune che risulterà prontamente inattendibile) assomiglia ad un quieto studente; sembra inadatto per organizzare scioperi universitari, figuriamoci rivoluzioni in campo. I parallelismi con la sfera scolastica non sono accidentali viste le dichiarazioni (anni dopo) di mister Carlo Ancelotti: “… completo grigio, cravatta rossa e occhiali da vista. Ho pensato di aver preso uno studente modello venuto in Erasmus… gli mancava la cartella con la merendina. Poi abbiamo visto quel che sapeva fare ed apriti cielo”.
E il cielo impiegò un niente per aprirsi, a cominciare dal primo match di campionato contro l’Ancona, fresca neopromossa. La compagine marchigiana (ribaltata poi nell’organico durante la sessione invernale di calciomercato) vanta dei nomi di tutto rispetto ma ormai già proiettati nel declino della propria carriera; Maini, Ganz, Di Francesco, Milanese e il bisonte Hubner sono le prestigiose pedine utilizzate nel corso della gara contro i rossoneri… mister Menichini a dirigere lo scacchiere. Il Diavolo espugna agevolmente il Del Conero con la doppietta di bomber Sheva ma la seconda marcatura dell’ucraino è figlia di un’azione sublime iniziata proprio dalla giocata, altrettanto grandiosa, dell’asso brasiliano. Il sombrero su Berretta dà il la al movimento in progressione (grande classico del repertorio) che gli permette di passare tra questo e Di Francesco, tagliando il centrocampo similmente al ben noto coltello in un panetto di burro, prima di lanciare sulla fascia l’eterno Cafù.
La colonia verdeoro del Milan, in quell’afosa serata marchigiana, sfodera ben quattro elementi estromettendo dal giro uno scarto di lusso come Rivaldo, con il quale – nella stagione precedente – si era sognato prima del grande fallimento… in breve, molto terrestre, poco extra. Ecco dunque che quel nome così risibile inizia invece ad incutere paura, soprattutto a chi, ogni domenica, si ritrova a fronteggiarlo facendo mentalmente testa o croce per scegliere la parte di campo sulla quale operare il contrasto: ma la moneta, puntuale, inganna! Se in quel giorno di metà agosto già riflettevo – con largo anticipo – sulla possibile maglia da chiedere ai miei genitori come regalo di compleanno, al trascorrere delle prime giornate di Serie A c’erano sempre meno dubbi. Ulteriormente ridotti quando poi il fuoriclasse venuto da Gama apparirà tra i marcatori del derby d’andata (per la cronaca, su assist – e sottolineo assist – di Gennarino Gattuso) e poi in quello di ritorno favorendo una rimonta storica che portò i tre punti malgrado il doppio svantaggio. Arrivato a fari spenti dalle parti di Milanello, tra scetticismo ed anonimato, riuscì in breve tempo a convincere gli addetti ai lavori, trasformando la cifra investita su di lui (circa 8,5 milioni di euro) in una bazzecola. Progressioni palla al piede, dribbling, tecnica sopraffina, visione di gioco e capacità di utilizzare divinamente entrambi i piedi: what else?
E pensare che a soli diciotto anni avrebbe potuto dire addio a tutto questo. Faceva ancora parte delle giovanili del San Paolo quando, ricevuta una squalifica per doppia ammonizione, impiegò il turno di riposo forzato per trascorrere un pomeriggio in un parco acquatico insieme alla famiglia. Batté la testa sul fondo di una piscina, riportando la frattura della sesta vertebra: per poco non rischiò la paralisi.
Sarà quella la linea di confine tra il prima ed il dopo; no, stavolta non c’entrano nulla gli affari di campo, il calciatore lascia spazio all’uomo. Ricardo sente di essere stato miracolato e da quel momento ogni partita, ogni gol ed ogni vittoria avranno sempre la stessa dedica, tatuata nello spirito e sulle magliette: “I belong to Jesus”. Il resto? È una cavalcata trionfale che porta il brasiliano a conquistare tutto nel giro di quattro stagioni; campione e supercampione d’Italia come antipasto e il menu europeo al gran completo soddisferanno così l’appetito dei golosi tifosi rossoneri.
La ciliegina sulla torta ha le tonalità dorate di una sfera alzata dopo aver ricevuto 444 voti: nel 2007 Kaká è il nuovo Pallone d’Oro, l’ultimo prima di un decennio contrassegnato dal binomio CR7 – Messi. Tutto merito di una Champions giocata e vinta da leader indiscusso (capocannoniere della competizione con dieci reti più tre assist). Le sue credenziali parlano di una tripletta all’Anderlect (con tanto di eurogol), del timbro in extremis contro il Celtic agli ottavi e in particolar modo della serata magica all’Old Trafford. La banda di Sir Alex fa paura ma l’eleganza dello smoking bianco (come il caro Pellegatti ribattezzò il talento brasiliano) incanta e delizia gli spettatori del teatro dei sogni… per info, rivolgersi ad Heinze ed Evra e domandate dei loro incubi. La classe sudamericana unita al pragmatismo della mentalità europea: i numeri del campione non sono mai oziosi, bensì concreti ed efficaci come sentenze prive di appello. Non è il ragazzo con la storia triste alle spalle che tornava a casa rispecchiandosi nei piatti vuoti ed alimentandosi di sogni; Ricardo proviene da una famiglia della borghesia benestante ma non per questo risulta meno affamato di successi.
Sarà così con le squadre di club e sarà lo stesso con il suo Brasile, dove ottiene due Confederations ed un Mondiale da ventenne, seppur disputando appena uno spezzone del match contro la Costa Rica. È tuttora l’ultimo Pallone d’Oro rossonero… uno degli ultimi fuoriclasse dell’epopea berlusconiana. Quella maglia numero 22 sventolata da una finestra è ormai storia. Da una parte il gesto capace di riscaldare i cuori rossoneri anche in una fredda nottata di gennaio (interrompendo la trattativa quasi conclusa con il City), dall’altra il preambolo agli imminenti tempi bui che da lì a cinque mesi entreranno nel vivo con la cessione al Real Madrid. In maglia rossonera rimarrà il fratello, Digão (una questione che per certi versi assomiglia ad un caso-Donnarumma ante litteram), girato dal club in maniera compulsiva con la formula del prestito pur di tenerlo lontano da San Siro e impedirgli di spezzare l’aura di sacralità creata dal maggiore di casa.
I milanisti lo sanno bene: i ritorni non hanno il benestare della Dea Fortuna. Ricky, in tal senso, fu una sorte di variante. I nove centri in trentasette gare, del 2013-‘14, non rappresentarono certamente la grandezza del trequartista – ormai acciaccato da noie muscolari – ma gli consentirono di evitare la bocciatura di fine anno, la stessa che investì tecnici e centravanti in tempi non remoti. Ci fu il tempo per commuovere, per rivedere quel “doppio due” ondeggiare sull’erba di San Siro e per assistere a qualche giornata speciale (come in occasione della doppietta all’Atalanta, con le marcature numero 100 e 101 in rossonero).
È sua anche l’ultima rete in Champions del Milan, siglata ormai più di sette anni fa. Doveva essere un attaccante, poi la gracilità adolescenziale lo costrinse ad indietreggiare di qualche metro; a conti fatti, fu una benedizione. Doveva essere un nuovo Cerezo e invece divenne tutt’altro; a conti fatti, fu una benedizione. Doveva esser girato in prestito già da quell’estate del 2003 ed invece convinse subito tutti; a conti fatti, fu una benedizione a tinte rossonere. Chiudo gli occhi e ripenso a quelle progressioni, rigorosamente affrontate con la testa in avanti come un rapace pronto all’assalto. Chiudo gli occhi e mi assale un po’ di malinconia… e forse quella non la dribbla neanche Ricardo Izecson dos Santos Leite. Per gli amici, per i tifosi e per gli amanti del calcio in generale… “semplicemente” Kaká.
P.S. Poi, alla fine dell’estate 2003, mi decisi a scegliere la maglia da chiedere ai miei. Sono certo che non servirà aggiungere altro… Obrigado Ricky.
Luca Fazi