Se da calciatore vieni soprannominato “Achille” e da allenatore “Tiranno”, significa che dentro di te scorre senza dubbio qualcosa di poco usuale rispetto alla generazione che stai attraversando. Qualità prima di tutto innate, poi raffinate nel tempo con summa lungimiranza. Austriaco di nascita, olandese d’adozione e in seguito autentico cittadino del mondo, Ernst Happel, con quel volto torvo e l’indole da eterno burbero, per chi ne ignora storia e abilità, è semplicemente l’alter ego di Rinus Michels, ovvero un signore che nell’Olimpo degli uomini di calcio avrà sempre un posto in prima fila. Perché senza saperlo sarà proprio lui a ricoprire il ruolo di apripista al grande Ajax degli anni ’70 e, nel continuo paragone con il “Generale”, spetterà ancora alla sua ombrosità, sfiorare il titolo mondiale del 1978 alla guida dell’Olanda.
La carriera di Happel – come scrive Fabrizio Tanzilli – parte da lontano, dai fasti degli anni ’50 con il Rapid Vienna, e da brillante diventa straordinaria quando inizia ad allenare, partecipando in modo per certi versi determinante, all’imponderabile ascesa del modello orange nel mondo del football. Dopo un breve tirocinio proprio nel suo Rapid, Il “Tiranno” approda in Olanda, fa bene col modesto Den Haag, attirando l’attenzione del Feyenoord e apre su se stesso una finestra verso l’immortalità. Figlio del Wunderteam, testimone ravvicinato dell’Ungheria di Sebes, del Brasile di Pelè e del Real Madrid di Di Stefano, Happel dispone di un bagaglio calcistico già sconfinato.
E dalla panchina dei Rottendammers ridisegnerà tutta la sua storia, senza mai ricevere, o pretendere, la paternità del calcio del futuro di matrice ajacide. Come l’Ajax si lancia nel quattro-tre-tre a cui aggiunge un’essenziale solidità difensiva, un po’ per predisposizione, d’altronde la scuola austriaca di Meisl andava di pari passo con l’Italia di Pozzo, e in parte per necessità.
Non disponendo del talento di Cruijff e compagni, il tecnico austriaco adatta l’idea michelsiana di calcio ai propri comandamenti – “Correre, correre, correre e disciplina” –ottenendo risultati incredibili. La squadra gira attorno a Willem Van Hanegem, un mediano con piedi e cervello da regista. Un duro, sgraziato nelle movenze, detto “il Gobbo”, ma con in testa geometrie pitagoriche, in grado di inventare spazi e tempi. Al suo fianco la corsa di Wim Jansen, all’ala sinistra la qualità di una bandiera come Coen Moulijn e davanti lo svedese Kindvall, primo vero erede di Gunnar Nordahl, capace di piazzarsi quarto nella corsa al Pallone d’Oro del 1969 a pari merito proprio con un certo Cruijff.
Alla prima stagione, mentre i rivali della borghese Amsterdam si concentrano sull’Europa, Happel gli sfila campionato e Coppa d’Olanda, dimostrando di saper far convivere sogni e praticità in un campo di calcio. L’anno dopo non si lascia spaventare dal clima etereo della Coppa dei Campioni, e pur non respirando come quello dei cugini dell’Ajax, e senza la linea difensiva eccessivamente alta, il quattro-tre-tre targato Happel supera il Milan di Rocco, il Vorwarts Berlino, il Legia Varsavia del talentuoso Deyna e, in finale, il Celtic di Glasgow, grazie a una rete del centravanti svedese Kindvall ai supplementari.
A poco meno di un mese di distanza da quel 26 maggio del ’70, il Brasile di Pelè, Rivelino, Tostão, Jairzinho e Gerson vincerà il suo terzo titolo, in un Mondiale a cui l’Olanda non si era neppure qualificata. Sarà l’ultimo atto di un calcio di grandi individualismi e basta, con il ritmo latino che cede a un’accelerata proveniente dal nord. Affiancando l’immagine di Carlos Alberto, capitano dei verdeoro, che alza l’ultima Coppa Rimet, a quella di Israel, capitano del Feyenoord che solleva la Coppa dei Campioni, si può percepire il momento del passaggio del testimone. Una frazione di tempo storica, che i Rotterdammers rendono granitica pochi mesi dopo con la conquista dell’Intercontinentale contro gli argentini dell’Estudiantes, prima di accomodarsi a osservare l’Ajax che incendia il mondo calcio.
Terminato il ciclo olandese Happel porterà la sua “pratica ribellione” altrove, prima al Siviglia, poi in Belgio, dove regalerà al Bruges tre scudetti e una dimensione europea mai avuta, e infine all’Amburgo, per togliersi le ultime soddisfazioni. Il suo arrivo nella bassa Sassonia si trasforma subito in oro e pur senza il talento di una squadra da sogno, ma con grande compattezza e un abbraccio collettivo alle sue idee, al primo anno (1982) vince il campionato. Al secondo (1983), firma una storica doppietta: Bundesliga e Coppa dei Campioni, mettendo fine al dominio inglese in Europa. Chiuderà il suo immenso percorso in patria, ma solo dopo aver stupito il mondo. Un viaggio di oltre cinquant’anni, lungo il quale ha potuto osservare i più riusciti esempi di football, trasformandoli in erudizione con l’enorme merito di aver combinato culture distanti nello spazio e nel tempo e, soprattutto, di averlo fatto vincendo. Perché non sempre è sufficiente incantare per diventare mito. Spesso, per meritarsi un posto nella memoria, occorre alzare qualche trofeo, e diciassette titoli in quattro paesi diversi non sono soltanto una favola.
Fonte: “Mondofutbol”