«Il mostro dei colpi di testa». Lo chiamavano così ai tempi del Rot-Weiss Essen, una delle grandi di Germania negli anni ’50. Oggi milita nel calcio di un dio minore, in quarta divisione, ma non c’è un tifoso, uno solo, che non s’accenda di passione al solo nominare Horst Hrubesh «il mostro». Nel bar di Essen, dove il centravanti che farà la storia della Germania e dell’Amburgo negli anni ’80 – finale di Atene in Coppa dei Campioni compresa, sì, proprio quella del gol di Magath – si fermava per una birra con i tifosi, lo ricordano così: «La sua carriera l’ha vissuta al pari dei suoi colpi di testa: s’arrampicava e sembrava non doverci arrivare. E invece…». A incorniciare la metafora, i numeri: otto anni di Bundesliga, 136 gol, dei quali 81 di testa, tanto per capirci.
Hrubesch era un colosso. Fisico imponente, stacco di testa impressionante, che potenziava in allenamento saltando con uno zaino pieno di sassi sulle spalle. Lui, in quell’Europeo del 1980 non doveva esserci. Jupp Derwall gioca con Allofs e Rumenigge attaccanti arretrati e il suo pupillo Fischer là in mezzo. Quando il centravanti dello Schalke si spezza una gamba, in casa Hrubesch squilla il telefono.
È Derwall, uomo di poche parole: «Horst, mi servi, vieni in Italia con me». È la svolta. Hrubesch si è sempre dovuto arrampicare. Arrivava in ritardo, ma arrivava. A 23 anni l’esordio in Bundesliga, a 28 la prima gara in nazionale. All’Europeo gioca titolare, ma nelle prime partite non segna, anche se lavora per la squadra come un minatore.
Nella finale contro il Belgio rischia il posto, ma alla fine Derwall lo mette dentro. Segna l’1-0 di piede, quasi un inedito. Poi il pareggio di Vandereycken. La Germania è sulle ginocchia, stanchissima: «Ai supplementari avremmo perso, non ne avevamo più. Poi quel corner a 2 minuti dalla fine. Rummenigge mi fa un gesto d’intesa, Jean Marie Pfaff fa l’errore di restare in porta e io salto. Ho la sensazione di volare, colpisco la palla, vedo la rete scuotersi e lì per lì non capisco cosa diavolo avevo combinato…».