«A Bologna mi sentivo un re, ho vissuto anni spettacolari, quando mi cedettero piansi, giuro. Non volevo andare via, anche se la nuova squadra si chiamava Inter». Adriano Fedele lo ricorda bene, da Udine, dove è nato, nel ‘47. Dopo oltre 200 partite in A e una carriera lampo da allenatore (promozione in A e caduta in B con l’Udinese nei primi ’90), condizionata da alcune brutte malattie poi sconfitte, è tornato a vivere nella sua città natale, di cui sa tutto: squadra di calcio, tecnico e presidente compresi.
E Fedele è uno un po’ alla Pace, parla chiaro, non ha paura dei suoi pensieri e delle sue idee. «In rossoblù mi ci portò Edmondo Fabbri dopo un provino che feci con le riserve a Modena. Arrivavo dalla C, giocavo nell’Udinese, nella mia città». Era il 1970. «Bella squadra, anche in coppa sempre all’attacco, io in Under 21 e Liguori pronto ad andare in azzurro, ma Benetti lo azzoppò e la cosa tarpò le ali un po’ a tutti». Il Bologna finì quinto, poi altri due campionati onorevoli. «Prima Fabbri, poi Pugliese, quindi Pesaola. Tutti mi ricordano come terzino sinistro (fra l’altro sono un destro: ora i ruoli invertiti vanno molto, allora invece…), ma giocavo anche mediano e infatti facevo i miei gol: ne ricordo uno al Milan seguito poi da due assist, uno a Rizzo e uno A Savoldi, alla fine da 0-2 finì 3-2».
Estate 1973: Conti lo cede all’Inter per 350 milioni: un bel gruzzolo per il presidente, un brutto colpo per i tifosi. «E anche per me. Ricordo la medaglia d’oro che Gino Villani e altri tifosi mi regalarono prima della partenza». Bene all’Inter («segnai molto anche in nerazzurro: mi piaceva giocare») e poi fine carriera a Verona, «dove trovai Guidolin, un amico che da quando è a Udine non vedo più». Su quella panchina però ci si è seduto anche Fedele. Calciatore in rossoblù, tecnico in bianconero. «Pozzo mi prese dalle giovanili quando esonerò Scoglio. Era il 1991 e centrai subito la A arrivando quarto. Poi, dato che io era senza patentino, l’anno dopo Pozzo invece di prendere un prestanome scelse Bigon. Tornai in panchina, al posto di Vicini, sempre in A, nel ’93, ma retrocedemmo».
Una corsa interrotta dalla malattia (tumore cervello e tiroide, cecità quasi totale, paralizzato, «la mia Chernobyl», dice), «a Tazio Roversi è andata peggio, ma non c’entra la carriera da calciatore, io non ho mai preso niente», superata alla grande. Quindi alcune squadre di B e C, poi i dilettanti, come «il Buttrio, in promozione, dove faccio giocare calciatori disoccupati. Mi basta il certificato medico. Un progetto di solidarietà». Modulo nuovo: 3-1-3-2-1. Un mediano fra difesa e centrocampo, due ali per il centravanti.