Le piazze s’incendiavano di protesta, gli studenti e i lavoratori urlavano la rabbia e chiedevano diritti, il mondo cambiava e l’aria della rivoluzione si respirava ovunque. Era la primavera del Sessantotto, stagione di sogni, di illusioni e di conquiste. In quegli stessi giorni, al comando di un uomo tanto astuto quanto saggio, un pugno di ragazzi italiani andò a prendersi la gloria correndo appresso a un pallone. Da trent’anni gli azzurri non vincevano nulla, dopo il secondo trionfo mondiale della Nazionale di Vittorio Pozzo, e nel calcio trent’anni sono un’eternità che confina con l’inferno. Quel pugno di ragazzi, in capo a una serie di avventure grottesche, vinse il campionato d’Europa (impresa mai più riuscita) e riportò l’Italia nell’Olimpo.
La formula del torneo era leggera. Dopo i gironi eliminatori – come racconta Andrea Schianchi sulla “Gazzetta dello Sport” – soltanto quattro squadre: semifinali a Firenze e a Napoli, finali all’Olimpico di Roma. L’Italia si era qualificata battendo nei quarti la Bulgaria. Le altre partecipanti erano l’Inghilterra, la Jugoslavia e l’Unione Sovietica che gli azzurri avrebbero affrontato in semifinale a Napoli. Il 5 giugno il San Paolo straboccava di gente e i ragazzi di Valcareggi ce la misero tutta per regalare a quei tifosi una gioia. Ma l’Unione Sovietica era davvero tosta. Gli azzurri si trovarono ben presto imprigionati in una ragnatela dalla quale uscire era proprio complicato. Non ci riuscivano i tanti solisti che Valcareggi aveva schierato, non ci riusciva Mazzola, non ci riusciva Rivera, non ci riusciva Pierino Prati.
L’unico a sfiorare il gol fu Domenghini: palo. Ma i sovietici, testardi e coraggiosi, ressero alle avanzate azzurre con lo stesso spirito di quando difesero Stalingrado dall’assalto dei tedeschi. Mai indietreggiarono, risposero colpo su colpo, utilizzarono più l’astuzia della forza. E alla fine, dopo centoventi minuti di battaglia, il risultato era ancora fermo sullo 0-0. Sugli spalti il pubblico palpitava: e adesso che succede? Il regolamento non prevedeva che la sfida si risolvesse ai calci di rigore: semplicemente la finalista sarebbe stata decisa dal vecchio e classico lancio della monetina. I due capitani, Giacinto Facchetti per l’Italia e Shesternev per l’Unione Sovietica, furono convocati nello spogliatoio dell’arbitro tedesco Tschenscher dove, alla presenza di un dirigente dell’Uefa, si sarebbe svolta la scena. La monetina era un franco francese. Al primo lancio s’incastrò in una mattonella, al secondo a Facchetti bastò lanciare uno sguardo per terra e poi corse subito fuori dallo spogliatoio a esultare. L’Italia aveva vinto il sorteggio, era in finale. Con fortuna, certo, con molta fortuna, però poteva giocarsela fino in fondo. La gente ringraziò San Gennaro e si preparò al momento decisivo.
Valcareggi fece la conta dei soldati arruolabili e si accorse subito che non avrebbe potuto contare su tutta la truppa. Molti avevano dolori ai muscoli, caviglie gonfie, qualcuno zoppicava.
Compilare la formazione per la finale sarebbe stato un autentico problema. Avversari degli azzurri sarebbero stati gli jugoslavi che avevano battuto i campioni del mondo in carica dell’Inghilterra. Spavaldi e un tantino arroganti, gli slavi ci spaventavano. Anche perché Valcareggi non poteva contare sul migliore, cioè Gianni Rivera, che era infortunato, e alla fine, dopo un lungo consulto con i dirigenti federali, decise di tenere fuori pure Mazzola, che si arrabbiò moltissimo. Spazio al giovane Anastasi in attacco. Sabato 8 giugno, la Jugoslavia ci tenne in scacco per parecchi minuti, passò in vantaggio con Dzajic e soltanto a dieci minuti dalla fine un gol di Domenghini pareggiò i conti. L’1-1 dopo i tempi supplementari prevedeva che ci fosse la ripetizione della partita, e non la monetina come era accaduto contro l’Urss: non si poteva consegnare la coppa sulla base del «testa» o «croce».
Così lunedì 10 giugno Italia e Jugoslavia tornarono in campo, ma questa volta Valcareggi preparò una trappola agli avversari: decise di cambiare cinque giocatori degli undici che aveva messo nella prima partita. Dentro, in un colpo solo, Mazzola, Riva, De Sisti, Rosato e Salvadore. Una vera e propria rivoluzione.
E fu la mossa decisiva. Gli azzurri, più freschi e atleticamente più preparati, sistemarono la pratica in una mezz’oretta: gol di Riva e replica di Anastasi. La Jugoslavia, nonostante i proclami della vigilia e nonostante avesse ottimi elementi in formazione, non si fece quasi mai vedere nella nostra area. Fu un trionfo. L’Italia abbracciò finalmente i nostri calciatori e, dopo trent’anni di tormenti e di delusioni, fece pace con loro. Le strade si riempirono di tifosi, uomini e donne che gridavano il nome di Facchetti e quello di Riva, il Paese sembrava aver trovato i nuovi eroi. E lo aveva fatto perché un uomo saggio, Ferruccio Valcareggi, che tutti chiamavano confidenzialmente Zio Uccio, aveva avuto il coraggio di guidare una rivoluzione.
Per arrivare al traguardo non si era fermato davanti alla paura, non aveva scelto di essere conservatore come la tradizione gli avrebbe imposto, ma aveva osato e aveva attaccato. Il mondo stava cambiando e anche lui cambiò le sue idee e la sua Nazionale. Ebbe ragione, si meritò la gloria e l’Italia uscì a riveder le stelle.