Ferenc Puskas, la mattina del 4 luglio 1954, si alza dal letto ben deciso a giocare la finalissima. La sua caviglia non è sicuramente nelle condizioni ideali, ma la voglia del capitano di scendere in campo è tale da fargli dimenticare ogni dolore. Il «colonnello» chiede a Sebes di schierarlo con la sua classica maglia numero dieci: per il selezionatore il dubbio è amletico. Meglio un Puskas a mezzo servizio (e forse meno) o un giocatore più grezzo ma in ottimali possibilità fisiche? Alla fine, Sebes non se la sente di negare al suo condottiero la soddisfazione di disputare – e probabilmente vincere – la finale di Coppa del mondo. Le due squadre entrano dunque sul terreno del Wankdorf di Berna nelle formazioni tipo: Grosics, Buzanszky, Lantos, Bozsik, Lorant, Zakarias, Czibor, Kocsis, Hidegkuti, Puskas e Toth I da un lato; Turek, Posipal, Kohlmeyer, Eckel, Liebrich, Mai, Rahn, Morlock, Otto Walter, Fritz Walter, Schäfer dall’altro. Tutti (o quasi) i pronostici della vigilia danno come grandissimi favoriti i magiari, che giungono all’epilogo sulla scia di una favolosa imbattibilità che ormai dura da quattro anni e più. Gli ungheresi fanno di tutto, in apertura, per non smentire coloro che li considerano insuperabili.
La partenza è volante, e l’azione del vantaggio si snoda sulla tre-quarti tedesca. Kocsis tenta un improbabile tiro a rete, ma la sfera piomba sui piedi del «colonnello» che non frappone indugio e silura in porta. Passano solamente due minuti e Czibor approfitta di uno scontro pasticcione tra Turek e Kohlmeyer, impadronendosi del cuoio per un facile appoggio in rete. 2-0 dopo otto minuti: la partita sembra segnata. Il motto dei tedeschi recita però «mai darsi per sconfitti». E la tradizionale forza morale dei teutonici esplode prorompente. Al decimo va a segno Morlock, che si inserisce al centro dell’area su una palla contrastata che schizza verso Grosics: il portierone attende un attimo di troppo per l’uscita bassa, e l’alfiere del Norimberga ha buon gioco nell’anticipo in scivolata. Il punteggio è riaperto: i tedeschi fiutano odor di pareggio, che arriva al diciottesimo. Un corner partito dalla sinistra di Grosics viene fatto ribattere dall’arbitro Ling, che ravvisa un’irregolarità; sulla battuta tesa di Fritz Walter si lancia Rahn, prontissimo a correggere da pochi passi con una volée imparabile. Il pubblico svizzero si esalta nell’assistere allo straordinario spettacolo: dopo nemmeno venti minuti di gioco quattro gol e qualche altra emozione.
Sepp Herberger, in panchina, si convince di aver fatto bene i propri calcoli: prima di tutto, aveva scoperto i segreti dell’attacco magiaro grazie alla furbizia perpetrata nei loro confronti nel primo match tra le due squadre, disputato in sede di girone eliminatorio. Facendo scendere in campo una formazione imbottita di riserve, il selezionatore della «National-mannschaft» si era coperto le spalle in caso di nuovo scontro con i danubiani, potendo vivisezionare il modulo tattico degli avversari senza permettere a Sebes di fare altrettanto. In occasione di quel confronto, Herberger aveva poi potuto individuare alcuni elementi che sarebbero risultati fondamentali per la conquista finale. Lo smarrimento tra le fila degli uomini in maglia rossa dura lo spazio di un minuto, e già subito dopo il gol del 2-2 si presenta loro una favorevole occasione sciupata banalmente da Czibor. La caviglia di Puskas comincia a stancarsi per le continue sollecitazioni e lancia tremendi segnali ai centri nervosi del capitano magiaro, il quale riprende a zoppicare come nei giorni precedenti la gara. La sorte maligna vuole che proprio a Puskas capitino due palle-gol da sfruttare di fronte al quasi disperato Turek. Ma la lucidità non è più la stessa dei bei tempi, e lo scatto felino della gioventù è solamente un pallido ricordo. Due volte Puskas ha tra i piedi la palla del 3-2 e due volte si fa parare dal sempre più rinfrancato portiere tedesco i suoi tiri.
Dalle tribune si comincia ad avere l’impressione che qualcosa stia girando per il verso sbagliato: ancora Kocsis (solitamente infallibile in certi frangenti) getta al vento una conclusione sotto misura e quindi è il mediocre Toth a farsi anticipare da un difensore in affannoso recupero. La serie di errori dei magiari regala ai bianchi una tranquillità insospettata: ad ogni minuto che trascorre, aumenta la sensazione che il colpaccio sia a portata di mano. Dal bordo del campo, Sebes si accorge che il punto debole del suo schieramento è la fascia laterale sinistra: Zakarias non appare in grande forma, e Toth risente di una giornata assolutamente negativa. Tenta di correre ai ripari spostando il più eclettico Czibor a sinistra, ma probabilmente rimpiange la mancata scelta di Palotas, un centravanti non eccelso tecnicamente ma di grande sostanza nella manovra.
La pioggia riprende a cadere sempre più fitta e snervante: sul prato allentato i tedeschi si esprimono meglio rispetto ai tecnicissimi avversari. La preparazione fisica assume straordinaria importanza in una sfida del genere, anche in un football non certamente stressante sul piano atletico come quello degli anni Cinquanta. In difesa giganteggiano Liebrich e Posipal, troppo trascurati dagli osservatori, rivelando insospettate qualità di palleggio; in avanti, la classe di Fritz Walter riluce in tutto il suo splendore, e il vecchio capitano ispira evoluzioni che lasciano interdetti avversari e pubblico. Un palo ed una traversa frenano le velleità di successo dei magiari, che si vedono sfuggire da sotto il naso un trionfo ampiamente assaporato. Ed è un atteggiamento troppo superficiale di Bozsik in una semplicissima fase di disimpegno su Schäfer a regalare ai tedeschi il pallone del 3-2 decisivo. Sulla propria tre-quarti il famoso mediano «bizantineggia» di fronte all’ala sinistra avversaria, gli permette di rubargli la sfera dai piedi e la successiva centrata per Rahn trova scoperta la retroguardia ungherese. Lo slancio dell’estrema destra è irresistibile: pur affrontato da un difensore, Rahn lascia partire un destraccio che si infila nell’angolino più lontano, del tutto fuori della portata di Grosics. Mancano sei minuti al fischio di chiusura: i rossi si gettano all’attacco, e Puskas riesce immediatamente a reperire nascoste energie per realizzare il punto del pari. Ling lo pesca però in millimetrico ma evidente fuorigioco, gettando lui e i suoi compagni nello sconforto più totale. La frittata è fatta: ancora una volta, la seconda consecutiva, l’undici che pareva a tutti imbattibile ha perduto un titolo già dato per acquisito.
Mentre i tedeschi impazziscono di gioia e lo stesso pubblico bernese attribuisce ai vincitori il giusto applauso, Puskas si aggira per il campo come uno che si è perso in una città straniera, girovagando qua e là in cerca di un’impossibile smentita dei fatti. Si chiude il dorato ciclo di vittorie dell’Aranycsapat, proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto ricevere degna consacrazione. A differenza di quattro anni prima a Rio, l’alloro va a premiare una compagine dimostratasi superiore, nel momento tipico, a quella che raccoglieva i favori del pronostico. La Germania di Herberger non raggiunge certamente le vette di abilità complessiva dei magiari, ma si è progressivamente affermata praticando un gioco abbastanza moderno nelle sue linee principali, in perfetta assonanza con le direttive impartite dal «sistema» più tradizionale. Sul torneo più ricco di reti nell’intera storia della Coppa del Mondo cala il sipario nel segno del football atletico, costruito sulla possanza fisica più che sulla maestria tecnica. Si va delineando un nuovo modo di intendere il gioco, maggiormente teso alla sostanza e al rispetto del risultato finale. È contemporaneamente il canto del cigno del modulo danubiano, finemente elaborato ma ormai obsoleto di fronte alle modifiche imposte dall’evoluzione dello sport. Se la classe è un dono della Natura, la preparazione scientifica è frutto del lavoro degli uomini.
Nulla è stato lasciato al caso dagli attenti programmatori teutonici: qualche settimana dopo la finale di Berna, i calciatori freschi campioni del mondo vengono colpiti in massa da un morbo di tipo itterico, che li debilita enormemente costringendoli all’abbandono temporaneo dell’attività. Una luce sinistra si staglia sul successo mondiale di Rahn e soci. Ad ogni modo, niente di provato al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma, come si diceva, nulla era stato lasciato al caso.
Fonte: “Storie di Calcio”