Enrico Vella, mediano d’altri tempi, ma con caratteristiche che farebbero comodo a ogni allenatore moderno. Una carriera che, per colpa di quel maledetto cuore, lo ha privato del professionismo alla soglia dei 30 anni. Enrico però, da buon combattente, non ha mai mollato e ancora oggi è ricordato con grande affetto dai tifosi di Atalanta e Lazio, squadre con le quali ha vissuto gli anni più belli.
Come è iniziata la tua carriera da calciatore?
«Feci tutta la tra la nelle giovanili del Genoa, poi mi cedettero in prestito al Sestri Levante in D. Partito per il militare dovetti stare fermo otto mesi. Successivamente venne fuori la Sanremese, in cui allenava lo stesso tecnico che avevo al Sestri, che mi volle a tutti i costi. È stata la mia fortuna, devo ringraziare mister Fontana che mi portò a Sanremo, dove vivo oggi. Da lì presi il largo, perché nell’anno della C1 segnai 10 gol da mediano e mi acquistò la Sampdoria. Feci poi un campionato straordinario al Catania e arrivarono le attenzioni della Lazio. C’era il mitico Bob Lovati, al quale sarò sempre grato, che veniva a vedere le mie partite e la società decise di acquistarmi».
Arrivasti alla Lazio nell’estate del Mondiale 1982. Che aria si respirava nella Capitale?
«Avevamo due giocatori squalificati, Giordano e Manfredonia, ma un giorno, durante il ritiro di Sarentino, arrivò la notizia dell’amnistia per le loro squalifiche. Tutti insieme festeggiammo il loro ritorno, che fu poi importantissimo per la conquista della promozione in Serie A».
Con quale compagno legasti maggiormente?
«Con Vincenzo D’Amico c’è un legame fortissimo. Il primo giorno di ritiro il mister Clagluna, che ricordo con tanto affetto, mi mise in camera con il capitano. Per me fu un’emozione incredibile. Da lì, per tutti i 15 mesi che trascorsi a Roma stetti in camera con Vincenzo. Nacque un’amicizia indelebile, ci sentiamo ancora oggi nonostante lui viva a Madeira».
Segnasti cinque gol nell’anno della promozione, a quale sei più legato?
«Esatto, tutti importanti e decisivi. Ricordo quello di Perugia che valse il pareggio al novantesimo. C’erano 5-6mila tifosi laziali sugli spalti, ma la metà erano già andati via, una volta sentito il boato rientrarono tutti. Quel gol fu una liberazione, eravamo in un momento delicato e ci permise di rimanere al secondo posto dietro al Milan. Ma anche il pareggio che segnai in casa contro la Cavese, altro scontro diretto, fu un pari insperato… oppure il gol al Como… Sono stati importanti decisivi ed entusiasmanti. Anche se l’esultanza più bella in assoluto è stata quella a Pistoia, quando segnai il gol vittoria e andai sotto al settore gremito dai tifosi biancocelesti. Fu una promozione sofferta, ma l’importante è aver riportato la Lazio dove gli competeva».
Grazie a quei gol, e non solo, arrivò un premio inaspettato, vero?
«Ai tempi sul Corriere dello Sport-Stadio fecero un sondaggio su chi fosse il calciatore più amato della Lazio. Al primo posto c’era ovviamente Bruno Giordano e poi, clamorosamente, al secondo posto c’ero io. Ma soprattutto vinsi il trofeo “Lazialità”, assegnato dall’omonima rivista di Guido De Angelis. Per un gregario come me è stato un onore esser stato premiato come miglior giocatore in mezzo a tanti campioni. Un’emozione che porterò sempre con me».
Com’era la tifoseria biancoceleste negli anni ’80?
«C’era un amore viscerale, i tifosi erano una cosa fantastica, porto un ricordo indimenticabile. Facevamo la Serie B e quando giocavamo in casa col Catania o col Milan sugli spalti c’erano 80mila persone. Questo vuol dire che la gente laziale ha una passione incredibile per la squadra».
Proprio nel 1982-‘83, la prima volta della Maglia Bandiera, che emozioni hai provato nel vestirla?
«È stato fantastico vestire la Maglia Bandiera per la prima volta, ricordo ancora il giorno della presentazione al Circolo Canottieri Lazio. Inoltre ho un legame particolare con il numero 4, che quell’anno indossai in tutte e 38 le partite».
Ci racconti un aneddoto di quell’anno?
«Ce ne sono tantissimi, ma il più bello, senza dubbio, si verificò durante un ritiro prepartita. Andammo con tutta la squadra a fare un giro in centro. Arrivammo a Piazza Navona, dove c’erano i banchetti che facevano il gioco delle tre carte. Ci mettemmo intorno ad un tavolo e facemmo diventare matto il “conduttore”. Alla fine fummo noi, con la partecipazione di Vincenzo, Bruno e degli altri, a fregare lui. In fin dei conti, questo dovette chiudere e scappare. Diventò matto, chiuse tutto e se ne andò. Il nostro era un gruppo affiatato di cui porto un grandissimo ricordo. E proprio quel gruppo insieme al grande supporto dei tifosi, ci permise di risalire in Serie A».
Poi l’Atalanta, raccontaci il tuo arrivo a Bergamo
«Arrivai a Bergamo in macchina insieme a Carmine Gentile, Fattori e Nedo Sonetti, il mister, colui che mi volle all’Atalanta. Anche quella fu un’esperienza fantastica in cui riuscii subito a centrare la promozione in Serie A. Ottenendo così due promozioni consecutive».
E la prima volta in cui tornasti all’Olimpico da ex?
«Porto un ricordo fantastico di quel giorno. I tifosi mi osannarono già fuori dai cancelli, ma quando entrai in campo fu davvero incredibile. Eravamo schierati e la Nord inneggiando il mio nome mi invitò sotto la curva. Ci andai e mi riempirono di sciarpe e di cori. Non riuscii a trattenere le lacrime, fu veramente emozionante. Poi, prima di tornare in campo, passai in panchina per posare tutti gli omaggi del pubblico biancoceleste, mister Sonetti mi guardò e mi fece: “Zingaro (così mi chiamava), ti do 5 minuti per riprenderti, altrimenti ti caccio fuori a calci nel sedere”. Ritornare a Roma e giocare contro la Lazio, con i tifosi che ti chiamano sotto la curva è stato qualcosa di meraviglioso».
Cosa successe in quel maledetto 1985?
«Il direttore sportivo rosanero Giacomo Bulgarelli mi volle al Palermo che era appena stato promosso in B. Firmai il contratto, ma la firma valeva solo dopo le visite mediche. Durante quei controlli riscontrarono delle aritmie e da lì iniziò il mio calvario. Avevo solo 28 anni e sentirmi dire una cosa del genere non è stato semplice. Giocai giusto qualche partita a Bergamo e ad Arezzo: finì così il mio percorso tra i professionisti, con il rammarico di non aver mai avuto infortuni, ma di essere stato tradito dal cuore».
Fonte: “Corriere dello Sport”