Una vita da mediano, a recuperare palloni ma anche a servire assist per gli attaccanti di Fiorentina, Torino e della Nazionale allenata da Vittorio Pozzo. Bruno Neri era un calciatore di Faenza duttile e atipico in grado di giocare 219 partite in Serie A negli anni Trenta. Aveva cominciato come terzino e poi, per via dell’ottima tecnica, era stato avanzato a centrocampo. Giocò anche nel Livorno e nella Lucchese. Nel giorno del suo esordio con gli Azzurri, nel 1936, La Gazzetta dello Sport scrive: «Il prestante giocatore, passato come è noto nei ranghi della Lucchese in virtù della sua elevata classe, ha meritato di arrivare alla meta a cui aspirava. Giocatore serio, coscienzioso, tenace». Bruno Neri, però, non solo non era un calciatore qualunque ma neanche un uomo qualunque. Nel 1929, diciottenne, passò per 10 mila lire dal Faenza alla Fiorentina. Una cifra che dimostrava quanto il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano contasse su di lui. Il nobiluomo, era un danaroso imprenditore petrolifero che aveva fondato l’Associazione Calcio Fiorentina (con la quale vinse una Coppa Italia e due Campionati di Serie B), la Società atletica Giglio Rosso (che vinse sei scudetti negli anni Venti) e fu anche presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio dal 1942 al 25 luglio 1943. Ridolfi fece costruire, a spese sue, un nuovo stadio e volle dedicare a Giovanni Berta, uno squadrista buttato in Arno da un operaio socialista. L’impianto, ultramoderno per l’epoca, era stato progettato da Pier Luigi Nervi: conteneva 45 mila spettatori e aveva una tribuna coperta da una pensilina. L’inaugurazione avvenne, in pompa magna, il 10 settembre 1931, con una partita amichevole tra Fiorentina e Admira Vienna.
I giocatori, schierati a centrocampo, fecero il saluto romano per omaggiare i gerarchi presenti in tribuna. Uno solo restò con entrambe le mani giù, lungo i fianchi: il ventenne Bruno Neri. Sapeva che quel rifiuto antifascista gli sarebbe costato caro: prima o poi. Il faentino non era un uomo qualunque, dicevamo. Come racconta Alessio Ribaudo sul “Corriere della Sera”, Frequentava teatri, musei, pinacoteche e il Caffè Giubbe Rosse dove incontrava poeti come Eugenio Montale o letterati come Carlo Bo. Era iscritto alla facoltà di Lingue Orientali a Napoli. Leggeva molto e capiva da che parte stare: sia in campo sia fuori. È forte, gioca bene ma in Nazionale. Nel 1937, dopo un periodo alla Lucchese, passò al Torino e ci giocò fino al 1940 quando, a 30 anni, chiude la carriera nella sua Faenza che, poi, lo sceglie anche come allenatore. La passione per il calcio è tanta, più forte degli investimenti economici in Lombardia che lo avevano portato a comprare un’officina a Milano.
Passioni che guidavano la sua vita. La seconda guerra impazza, lui calciatore famoso poteva «imboscarsi» ma Bruno Neri amava impostare le azioni non solo in campo quando doveva dare la palla a Meazza o Piola ma anche nella vita. Così scelse di giocare un’altra partita: al servizio della libertà dai nazi-fascisti. Scelse di scendere in campo con i partigiani grazie al cugino Virgilio Neri che faceva già parte del Organizzazione Resistenza Italiana (Ori), in stretta connessione con l’Office of strategic service americano e il Comitato di Liberazione Nazionale. Solitamente gli uomini dell’Ori avevano il compito di raccogliere informazioni e svolgere azioni di sabotaggio a favore dei resistenti. Così Neri, di notte imbracciava il mitra e di giorno indossava ancora le scarpette da calcio.
Era il 7 maggio del 1944 e, dopo aver perso un Faenza-Bologna, si dette alla macchia. Lui che da giocatore faceva da collegamento fra difesa e attacco, fu impiegato come «ponte» fra le brigate partigiane. Era un leader naturale e con il nome di battaglia «Berni» fu nominato, quasi subito, vicecomandante del Battaglione «Ravenna» capitanata dall’amico e cestita «Nico», ovvero Vittorio Bellenghi. Guidavano una ventina di partigiani sulle montagne dell’Appennino tosco-emiliano che avevano compiti di collegamento per la trentaseiesima Brigata «Bianconcini» a ridosso della Linea Gotica. Lunedì 10 luglio del 1944, sembrava un lunedì come tanti e i due capi della «Ravenna» erano in perlustrazione. Bisognava essere sicuri che un sentiero sul Monte Lavane fosse libero dai nazi-fascisti perché, fra il 16 e il 20 luglio, il Battaglione avrebbe dovuto recuperare dei sacchi sganciati di notte dagli Alleati. Mentre si inoltravano nei boschi, però, vicino all’Eremo di Gamogna, s’imbatterono in un drappello di 15 tedeschi che iniziarono a sparare a raffica. Loro risposero al fuoco, provarono a fuggire ma i nemici erano troppi e non ebbero alcuna pietà di loro. Così, i corpi crivellati di «Berni» e «Nico» furono lasciati sul selciato, a pochi passi dal cimitero. La sua memoria oggi è ricordata sia a Faenza sia a Torino. Nella sua cittadina, è stata affissa una lapide («Qui ebbe i natali Bruno Neri comandante partigiano caduto in combattimento a Gamogna il 10 luglio 1944 dopo aver primeggiato come atleta nelle sportive competizioni rivelò nell’azione clandestina prima nella guerra guerreggiata poi magnifiche virtù di combattente e di guida esempio e monito alle generazioni future») e gli è stato dedicato lo stadio che lo ha visto protagonista. Invece, nel capoluogo piemontese gli è stato dedicato un «toret», una delle caratteristiche fontanelle che sono sparse per la città, in piazzale San Gabriele di Gorizia, all’imbocco di via Filadelfia. Una memoria che dà ancora fastidio visto che, quando si seppe che sarebbe stata intitolata a un simbolo della Resistenza come Neri, alcuni ignoti l’hanno imbrattata affiggendo manifesti inneggianti al fascismo.
Bruno Neri, prima di scendere in campo, spiegava ai compagni di squadra: «quando si riceve il pallone, bisogna aver già deciso come giocarlo». Bruno Neri aveva deciso anche come vivere: fare di tutto, costi quel costi, per un Paese libero. Se oggi lo siamo, è anche grazie al suo grande gesto di rifiutarsi di omaggiare il regime fascista in campo e alla sua vita spezzata a 33 anni per un ideale così nobile.