La sua banda suona il rock. E tutto il resto all’occorrenza: non solo perché il trasformismo è diventato un’esigenza, ma perché bisogna pur impugnare qualcosa quando resistenza sterza contro la nostra volontà. Massimo Tarantino, difensore sul campo, pianista-chitarrista nella vita, è uno che ragiona limpido, quasi fatalista: «La vita è così, il destino prende una strada e bisogna andare». Bello, ma anche doloroso, come la sua storia racconta. Massimo nasce figlio di calciatore a Palermo. Suo padre Bartolomeo mette un piede anche in serie A, Roma e Venezia. Prima di lui mette al mondo, con l’apporto determinante della signora Paola, Gianni e Giacomo, e, dopo di lui, Fabio.
Tutti con il pallone tra i piedi. Gianni, dopo Massimo, è quello col curriculum migliore, esperienze in C1. «Su di lui, ruolo centrocampista, erano riposte le speranze di mio padre. Stava nelle giovanili del Palermo con Zeman che lo chiamava “il professore”». A volte, verso il calciatore palermitano, abbiamo un approccio «schillacesco», quasi sperando di rinvenire una vicenda di emarginazione e redenzione. «Niente da fare: ho avuto una bellissima infanzia. Sono cresciuto nel quartiere Romagnolo, nel mio piccolo mondo, con i miei amici. I miei genitori non mi hanno fatto mai mancare nulla. La mia prima società è stata la Stella d’Oriente, dell’impagabile Pino Gargano. Io ero bravino e così mi mettevano nei ruoli più delicati per tappare i buchi. I miei idoli erano Altobelli, Beccalossi e Rummenigge: interista per dna familiare». Con la Cosmos, poi, vince il campionato allievi. «Un buon trampolino di lancio, non solo per me: da lì è uscito anche Taibi». Il passo successivo lo porta a Catania. A 16 anni professionista, a neanche 18 anni nel Napoli della banda Maradona. «Per me, ragazzo di Sicilia, era una realtà fuori dal normale. Ora è diverso, i ragazzi sono scafati, ma allora guardavamo con timore gli anziani. Una volta dovevo chiedere una cosa a Maradona: ho mandato avanti Francini».
Capitolo Maradona. Sono ormai gli anni (quello il 1989-‘90) del Diego declinante, di cui si perdono le tracce sugli argini del Paranà, dove va (versione ufficiale) a pescare i dorados. Torna, non torna? «Tornò alla vigilia della partita con la Fiorentina e partì dalla panchina, accanto a me. Quella domenica non la scorderò mai. Salivo le scale che portavano sul prato del San Paolo dietro di lui. Quando siamo entrati in campo ci ha accolti un incredibile boato. Un’emozione unica percorreva lo stadio. Non l’ho mai più avvertita. Avevo la pelle d’oca». È un Maradona dove vizi e capricci hanno il sopravvento. «Per me era una figura carismatica: non faceva differenze, la sua grande umanità era un punto d’appoggio per tutti». A ottobre, dopo aver esordito in serie A ad Ascoli. Tarantino parte per Monza. «Per fare esperienza». Quindi quello scudetto non lo sente come suo? «No è anche un po’ mio, ho sempre seguito il Napoli, avevo molti amici. E anche se ero andato via, quella era la mia società, dove sarei tornato».
Così avviene. Barletta, poi Napoli, fino al ’96, fino al momento in cui il sogno del ragazzo di Romagnolo si avvera. «Boskov mi chiamò e mi disse che mi voleva l’Inter. Ero felice, anche se finii il campionato con qualche piccolo acciacco». Gli acciacchi diventano un problema serio nel ritiro. Si decide per una pulizia al tendine d’Achille, ma l’intervento non è perfetto. Tarantino deve subirne un altro dopo sei mesi, ma anche questo non è definitivo. Deve andare fino a Basilea per risolvere i suoi problemi. Così, del suo passaggio all’Inter, non resta traccia, una casella vuota sull’almanacco, la grande occasione scivolata via. Però c’è speranza per chi, come lui, ha valori come onestà e lealtà. Un posto per ricominciare. «A Bologna ho trovato il miglior ambiente possibile e una società che mi ha aiutato».
Cinque anni laggiù, poi ancora qualche anno tra Como, Triestina e Pavia prima di chiudere definitivamente e aprire un generosa carriera nell’organizzazione dei settori giovanili (Bologna e Roma in particolare). Suona sempre il rock (italiano, soprattutto: Liga, Vasco): musica come passione e terapia. «Ho cominciato seguendo mio fratello che aveva preso in mano la chitarra, poi sono passato al piano. Da autodidatta prima, prendendo lezioni poi, fino a mettere su una piccola sala d’incisione nella mia casa di Binasco. Quando ero all’Inter ho conosciuto Mario Riso, batterista dei “Movida”. Era quel momento particolare per me, non mi allenavo e quei ragazzi con cui suonavo mi facevano felice». Già, il rock viaggia senza passaporto, dice la canzone. E noi dietro, col fiato corto.