Coppa dei Campioni 1984, semifinale di ritorno, scozzesi travolti 3-0: “La partita fu un lungo, infinito respiro trattenuto. Due settimane prima, la sconfitta non fu solo calcistica. Durante e dopo il match, gli insulti sembravano rivolti all’Italia più che alla Roma. La rabbia con cui tifosi e calciatori aspettavano il ritorno trascendeva la sfida sportiva”. Ce la racconta Claudio Tito su Repubblica.
“A ragazzi’, in finale dovete tornà qui. Dateme i nomi e i numeri de telefono, i biglietti ve li compro io e poi me date i soldi. Ma dovete stà qui co’ me, proprio qui, stessi posti, stesse persone. Nun vojo sentì raggioni…”. Roma, 25 aprile 1984, stadio Olimpico. Per la precisione: settore Distinti nord. La partita della vita è appena finita. Almeno della mia. Roma-Dundee United, semifinale di Coppa dei Campioni. Allora si chiamava così. Quella squadra, guidata da Liedholm e Falcão si ritrovava in finale. Offesa e umiliata in Scozia con un netto 2 a 0, ma soprattutto con gli insulti di stampo razzista (evidentemente non è una questione solo di questo tempo), aveva trasformato la città in un gigantesco assegno di risarcimento. Non solo sportivo.
Un evento, unico per la Capitale e i suoi tifosi. Eppure quando quella partita mi ritorna in mente, la prima immagine non si materializza su un calciatore o su un azione. Definisce invece i contorni di quella signora che mi sedeva accanto. Una donna piuttosto corpulenta, una matrona, con un accento romano orgogliosamente rivendicato. Sciarpa giallorossa intorno al collo e il figlio accanto, con la maglietta del bomber Roberto Pruzzo. Quella tifosa accanita non voleva nemmeno festeggiare. Per la Roma era davvero il segno che erano finiti i tempi cupi, come cantava Lando Fiorini. La Magica entrava nell’empireo europeo dopo una vita nei bassifondi della classifica. Ma lei, archetipo del tifoso giallorosso di quegli anni, non voleva festeggiare. Il suo obiettivo era trattenere quell’attimo di felicità assoluta. Nel tentativo di conservarlo fino alla finale. Avvolgerlo nell’alone della superstizione. Né io, né i miei amici, ossia ”i ragazzini” cui si rivolgeva mentre l’intero stadio si inebriava di quella vittoria, sapevamo chi fosse. Ma eravamo diventati il quadro indispensabile per perpetuare quell’equilibrio unico. E la sua non era una semplice cortese disponibilità: era un ordine. “Dovete sta’ tutti qui”.
Quella partita unica nei ricordi si sovrappone e si mescola con la romanità di quella donna. Lo stadio, del resto, non era solo il luogo nel quale si assisteva ad una partita. Era una sorta di comunità che si rinnovava di settimana in settimana. Una amicizia occasionale e nello stesso tempo permanente. I cancelli si aprivano almeno cinque ore prima del fischio di inizio. Entrare sugli spalti nell’ultima mezz’ora non solo era impossibile – era già tutto pieno – ma costituiva quasi un oltraggio. Bisognava presentarsi lì di buon mattino, perché si giocava alle 15,30. In quelle ore si divideva e si condivideva quasi tutto con il tuo vicino. Quella donna aveva portato con sé – cosa impossibile nell’epoca attuale – un enorme cestino di vimini riempito di ogni ben di dio: frittata di pasta, prosciutto crudo, mozzarella, acqua, vino, frutta. Troppo persino per la sua stazza e per quella del figlio. Il resto lo ha dato a noi, o meglio lo ha condiviso con noi. A partire dalle 13,30. “Prima è troppo presto, poi diventa troppo tardi. Magnate pure voi, perché al massimo alle tre dovemo avè finito tutto”.
E così fu. La partita poi è stata un lungo, infinito respiro trattenuto. Due settimane prima, la sconfitta non fu solo calcistica. Durante e dopo il match, gli insulti sembravano rivolti all’Italia più che alla Roma. La rabbia con cui tifosi e calciatori aspettavano il ritorno trascendeva la sfida sportiva. Era una mescola unica: eccitazione calcistica, fierezza nazionale e riscatto cittadino. Il primo gol, di Pruzzo, è stato una specie di “booster”. Senza quella rete al ventunesimo del primo tempo, forse le cose sarebbero andate diversamente. Un gol annullato a Bruno Conti poco prima aveva gettato lo stadio nella disperazione. Quel colpo di testa del Bomber lo aveva risollevato. Il secondo, sempre di Pruzzo, invece dava la certezza. Che l’umiliazione di quindici giorni prima poteva essere davvero lavata sul campo.
“A ragazzì, nun dovete esultà. Sto’ gol – l’ammonimento sempre della signora sconosciuta che sembrava ormai una specie di aruspice unica di tutti i tifosi – significa che questo è il giorno giusto. Ma dovete sta’ bboni. Non è finita. Se canta quanno lo dico io”. Ma per lei il momento non sarebbe mai venuto, nemmeno quando Agostino Di Bartolomei segnava su rigore. L’Olimpico esplodeva e lei imprecava. “Zitti, zitti nun è finita”. Noi ormai, ad ogni azione, saltavamo in aria insieme a tutti gli altri. E un secondo dopo obbedivamo a lei, a quella specie di sacerdotessa in giallorosso che non ammetteva repliche. Abbiamo potuto cantare, scatenarci ed esultare al fischio finale. Mentre il capitano di quella squadra memorabile, Di Bartolomei, correva verso la panchina degli scozzesi mostrando le tre dita della mano, lo stadio era in delirio. La vendetta calcistica e umana, era consumata. La città viveva il suo riscatto. Ma lei, simbolo della romanità di quel tempo, non poteva fermarsi a gioire. “Dateme i nomi e i numeri di telefono, ve li compro io i biglietti. E tornamo tutti qui, proprio qui”. E noi eseguimmo quell’ordine senza discutere.
Quello che accadde dopo, però, non me lo ricordo più.