“Sono quello che ha preso a calci Diego dall’inizio alla fine. Non l’ho mai negato, e al resto ci hanno pensato le telecamere”. Un grande fratello severo e obiettivo quello che il 2 giugno del 1986, in una tarda mattinata densa di umidità a Città del Messico, non ha perso di vista un solo istante della feroce marcatura di Huh Jung-Moo sul Pibe de Oro.
Maradona in queste settimane è stato raccontato e declinato in ogni modo. La sostanza del mito è stata scossa e agitata quasi quanto il sangue di San Gennaro. Dopo l’attenta vivisezione del “zurdo” è toccato lo stesso trattamento ai suoi “aguzzini”, in particolare Gentile e Goikoetxea. Il compianto tedesco Norbert Eder, carceriere della finale messicana, stava già tenendo un posto al caldo a Diego tra le nuvole. Rimaneva appunto il coreano Moo. Strano il destino di quello che, dopo Cha Bum Kun, viene considerato il più forte calciatore dei “Warriors” di tutti i tempi
La Corea del Sud, diretta dal pragmatico Kim Jung-Nam, trovò la storica qualificazione alla coppa messicana dopo aver battuto il Giappone. Da quel momento è stata l’unica squadra al mondo, assieme a Germania, Brasile e Argentina, a non fallire un solo appuntamento con l’iride: nove edizioni e altrettante presenze. “Nell’86 però eravamo cenerentole e sapevamo che in un girone con l’Italia campione del mondo, l’Argentina e la Bulgaria, sarebbe stato un inferno”.
Nella sfida iniziale la squadra di Nam affrontò quella di Bilardo e Moo racconta un retroscena fino a oggi mai svelato. “Diego era l’incubo, il giocatore più atteso. Quattro anni prima aveva fallito la scalata mondiale, concludendo il suo percorso con un’espulsione. Sapevamo che aveva una gran voglia di riscatto. Il nostro ct pensò di fermarlo inizialmente con una gabbia di tre giocatori, ma alla fine scelse me”. Peccato che Moo, all’epoca 31enne, fosse un trequartista di ruolo, il giocatore incaricato nella norma di rifornire il “tedesco” Cha Bum di munizioni. Un rifinitore che in Olanda, con il Psv, aveva esaltato Gullit e costretto persino Cruyff a maltrattarlo rompendogli il naso con una gomitata. “Per l’allenatore io ero il giocatore di maggior esperienza internazionale e Maradona sarebbe toccato a me”. È come se oggi, per marcare Messi, la Francia incaricasse Mbappé o la Spagna Marco Asensio.
All’atto pratico Moo non lesinò sforzi, ma con quel Pibe in stato di grazia non trovò mai il pallone. “Arrivavo in ritardo e non potevo fare altro che colpirlo. Non avevo i tempi e le movenze di un difensore. In un momento d’impeto lo colpii così forte al polpaccio da lasciargli una ferita che le telecamere inquadrarono trasmettendola ai quattro angoli del pianeta”. Per la cronaca l’Argentina vinse 3 a 1. Tre assist di Diego per i gol di Valdano (doppietta) e Ruggeri. Con la Bulgaria arrivò un pareggio, mentre Moo si tolse la soddisfazione di realizzare un gol all’Italia nel 3 a 2 finale per gli azzurri. “La agganciai al volo mettendola alle spalle di Galli mentre Cabrini e Conti mi avevano perso per strada”, ricorda con orgoglio.
In nazionale Moo giocò 103 volte, e in 30 trovò la via del gol. Nel 2010, da allenatore della nazionale coreana, incontrò nuovamente Maradona sulla sua strada, in qualità di ct dell’Argentina ai mondiali sudafricani. A Johannesburg (4 a 1 per l’Albiceleste) i due si strinsero la mano. “Gli ho chiesto scusa, e anche se mi ha perdonato sono convinto di non aver dato una buona immagine di me”. Oggi Moo si occupa di calcio e finanza, ma è anche opinionista per la tv coreana SBS. E ironia della sorte è stato il primo commentatore del suo Paese a parlare della morte di Diego poco dopo la notizia della scomparsa. “Il calcio ha svoltato, ma forse non nel modo corretto. Ci sarà un prima e un dopo Maradona nella storia di questo sport. Io non riesco a immaginarlo defunto. Mi piace pensare che il 25 novembre 2020 un’astronave sia atterrata nel giardino di casa sua, per riportare a casa l’extraterrestre del pallone”.
Luigi Guelpa