Loustau, l’ala di cui Di Stéfano diceva “era un Gento, ma più veloce…”. Labruna, i baffetti da Clark Gable che aveva saputo essere Puskás prima di Puskás. Pedernera, di cui sempre Di Stéfano diceva “il più forte di tutti i tempi tra me e Pelè? Tutti e due un gradino sotto Pedernera…”. “El Charro” Moreno, fulgido esempio di genio e sregolatezza che avrebbe portato alla disperazione pure Telè Santana. E poi lui: Juan Carlos Muñoz, il dribbling fatto a persona, l’eleganza fatta calciatore, la tecnica fatta atleta. Il giocatore – come racconta Daniele D’Aquila – che nemmeno i tifosi rivali del Boca Juniors riuscivano a fischiare e che odiavano proprio per quella sua inattaccabilità tecnica e umana che lo rendeva imperfetto come bersaglio per le scimmie da spalti. Fuoriclasse in campo e gentiluomo fuori, come tutti quei personaggi della Maquina la sua vita è una collezione di aneddoti, più o meno gustosi, più o meno romanzati dalla tradizione orale e raccontati dai nonni e dai padri, mentre ci si avvia verso il Monumental trangugiando frettolosamente un chivito, seguendo la scia di fumo dei quioscos de golosinas che pervade il viale e che indica ai forestieri la strada per lo stadio: segui il profumo dei chorizos e non puoi sbagliare…
Il fuoriclasse in campo è testimoniato da quella domenica in cui il River Plate giocò in trasferta, e Muñoz sbagliò un cross provocando lo “ooooohhhhhhh!!!…” inorridito del pubblico; se lo sarebbero aspettato da tutti tranne che da lui, tanto che un giornale locale il giorno dopo, per descrivere i meriti della squadra di casa che aveva fatto bella figura nonostante la sconfitta, titolò: “Abbiamo costretto Muñoz a sbagliare un cross!”…
Il gentiluomo fuori dal campo è testimoniato dalle parole che ad un ricevimento gli dedicò un papavero del partito militare al governo: “Muñoz, lei è un vero signore! Perchè non lascia perdere lo sport e si dà alla politica?…” La risposta, dell’allora già ex-calciatore, fu posata quanto bruciante: “Señor General, quando poco fa mi dava del “signore”, lo diceva con ammirazione o con un senso di fastidio?…”
Non che Muñoz non avesse debolezze, per carità, anzi. Sia il calciatore che l’uomo ne erano pieni. Il primo era tanto bravo quanto lezioso, e la sua flemma lo metteva in ombra quando la partita diventava una corrida (ed anche allora nel campionato argentino capitava spesso…). Al contrario infatti del suo vicino di reparto Moreno (che era disposto a finire all’ospedale ubriacando l’avversario di finte, pur di fargli guadagnare un’espulsione…), Muñoz non amava le atmosfere cariche di tensione (un po’ come il Platini dei derby torinesi) e silenziosamente se ne estraniava dall’alto della sua alterigia, adagiandosi sul fatto che quella Maquina avrebbe vinto in 9 contro 11 e figuriamoci in 10. La debolezza dell’uomo invece stava nella continua ricerca dell’eleganza, sia nel comportamento a volte fin troppo stucchevole, sia nel vestiario che spesso gli consumava l’intero stipendio o quasi. Da vero dandy curava ogni particolare del suo aspetto fisico, a partire dalla chioma sempre brillantinata (tanto da fargli guadagnare dai compagni il soprannome di “El Pomada”…) e che ad un certo punto lo porterà ad anticipare quell’acconciatura che in seguito James Deanmutuerà da Chet Baker permeando ed ispirando lo stile dei Teddy Boy. Tanto il sudamericano El Charro era da tango nelle milongas dei barrios tanto El Pomada era distinto frequentatore del Teatro Colòn, esempio eloquente di quegli argentini che si considerano europei in esilio. Fa parte del mito il suo sdegnato commento all’abbandono da parte del River delle camicie coi bottoni davanti, a favore delle odierne casacche da gioco: “Fra un po’ vestiranno i calciatori con le tute da lavoro!…”
Grande tecnica e grande personalità, come gli altri componenti della Maquina, tutti attori di grandi sceneggiate e autori di grandi declamazioni rimaste nella storia. Come quando un giovanissimo Di Stéfano si esibì nello spaventoso esordio in partitella nel primo allenamento con la prima squadra del River, e Muñoz avvertì i compagni col suo ghigno a metà tra l’amaro e il divertito: “Ragazzi, da domani il giornale cominciate a leggerlo dall’ultima pagina!…”, tanto da spingere Pedernera alla famosa “ramanzina” nei confronti del giovane Di Stéfano. Già, la Máquina. Un soprannome che potrebbe essere equivocato come irriverente, giacche il gioco di quella squadra era tutto fuorchè meccanico e schematico bensì affidato alla creatività ed all’intelligenza calcistica dei suoi fuoriclasse. Un gioco che portò il River a dominare in patria e nelle rare occasioni anche all’estero, dove accrebbe il suo mito. A cui mancò solo un vera consacrazione internazionale: senza le coppe e i tornei di oggi la Máquina si nutrì solo dei rari incontri amichevoli, sufficienti a creare sgomento negli osservatori stranieri più qualificati ma insufficienti a riportarne il mito fino ai giorni nostri. E come se non bastasse ci si mise pure la Seconda Guerra Mondiale a cancellare due Mondiali che con quei nomi la compagine argentina avrebbe molto probabilmente monopolizzato come l’allora Campeonato Sudaméricano de Selecciones (l’odierna Copa America che infatti, ad esempio, il Brasile riuscì a vincere dopo tanti anni nel 1949 contestualmente alla mancata partecipazione della Selección albiceleste…), sancendo il sorpasso sulla rivale scuola uruguagia.
Il gioco del River Plate dicevamo. Un gioco tanto semplice quanto efficace, perché all’epoca non è che ce ne fossero tanti di moduli: la differenza la faceva l’interpretazione e quella della Máquina era la migliore. Cinque uomini d’attacco in linea, con un attaccante centrale che portava il gioco (e che difatti si chiamava centrattacco e non ancora centravanti, perché ancora non era diventato il puntero abbandonato là davanti ad aspettare l’assist) per poi servire le due mezzali ai suoi lati e lanciarle a rete (la mezzala sinistra Labruna detiene non a caso il record di gol segnati con la maglia del River) o chiudere il triangolo ed andare alla conclusione personalmente. In alternativa serviva il gioco sulle ali per andare a riceverne il cross. E qui entravano in scena il velocissimo Loustau da una parte, che era solito sfrecciare sul fondo, e il funambolo Muñoz dall’altra, che invece aveva al suo arco più frecce. La sua fantasia unita alla sua eleganza gli permettevano infatti di deliziare il pubblico con finte, dribbling, giocate di prima ed azioni personali che scoraggiavano qualsiasi marcatore dopo pochi minuti. Il suo marchio di fabbrica era la carezza al pallone con la suola. Sia quando stoppava la palla spalle alla porta e, fissando a terra l’ombra del marcatore alle sue spalle, aspettava la sua prima mossa per far rotolare la palla all’indietro, girarsi e fuggire sulla fascia, sia quando si esibiva in quella versione speculare dell’elastico che Rivelino si dice inventò e Ronaldinho ha reso famoso in epoca più recente.
Mentre nell’elastico brasiliano il piede sposta prima il pallone con l’esterno e poi con l’interno della punta lo recupera facendogli cambiare repentinamente direzione, Muñoz operava al contrario: arrivando sul pallone abbozzava uno spostamento su un lato fintando il tocco con l’interno, ma poi accarezzando il pallone con la suola lo faceva rotolare sotto il piede verso l’esterno dello stesso, col quale poi fargli cambiare repentinamente direzione e spostarsi dalla parte opposta. Il tutto eseguito con un unico movimento così fulmineo da lasciare il difensore tanto disorientato dalla finta da non riuscire a capire cosa fosse successo o addirittura (come diceva Bernabè Ferreyra) “mandando il difensore in tribuna”. Muñoz, partendo dalla destra, era solito eseguire questa giocata di sinistro per accentrarsi e andare al tiro o servire l’accorrente compagno (solitamente Moreno) che si inseriva nel corridoio, oppure la eseguiva di destro per andare sul fondo a crossare (di norma per il gol di Pedernera o Labruna). Ma, come accadrà per la famosa finta di Garrincha, anche se i difensori lo conoscevano e si aspettavano quella giocata non riuscivano mai a neutralizzarla, cascandoci sempre. E adesso, lasciando a macerare nella nostalgia i pochi abbastanza vecchi da averlo visto giocare e a soffrir di rammarico tutti noi che non abbiamo potuto ammirarlo in diretta, se ne è andato. Alla fine anche lui, l’ultimo grande attore che lascia quel glorioso palcoscenico ad altri protagonisti (abbastanza indegni, a dire il vero: “la Máquinita”, come è stata sprezzantemente chiamata sui forum dai suoi tifosi, quella cigolante carriola di oggi, non ha nemmeno pensato di giocar domenica con la fascia nera del lutto al braccio…) e noi restiamo qua, con i mediocri figuranti di oggi che dei fenomeni di quell’epoca non hanno né la classe, né il fascino, né la personalità, ma solo i capelli impomatati ed un insana passione per l’alcool.
Restiamo qua, ancora un po’ più soli, legati all’immagine di quel nonno che, seduto sullo sgabello del laboratorio intanto che impaglia sedie e cuce poltrone, mentre il vecchio grammofono gracchia un tango di Julio Sosa, narra al nipote le gesta della Máquina. E il bimbo ne resta ubriacato, tanto da non accorgersi che sta sgranocchiando compulsivamente il torsolo, perché la mela è finita da un po’ senza che se ne sia accorto, rapito dai racconti che cerca di tradurre in immagini nella sua mente. Quella mente lucida quanto basta per memorizzare la filastrocca che il nonno gli ha insegnato, che il giovane criollo fischiettava all’alba mentre pedalava a consegnare i quotidiani del mattino (ah, dimenticavamo: quotidiani che, all’epoca della Máquina presentavano nell’ultima pagina gli annunci delle offerte di lavoro…), che la vecchia mapuche canticchiava mentre cuoceva l’asado in cortile, ma soprattutto che l’hinchada a gran voce scandiva come un anatema per spaventare gli avversari: “SALE EL SOL, SALE LA LUNA. CENTRO DE MUÑOZ, GOL DE LABRUNA!…”.