Nell’immaginario collettivo, i Mondiali giocati in Messico nell’estate del 1970 sono quelli di Italia-Germania 4-3, o meglio “Italiagermaniaquattroatrè”, detto tutto d’un fiato. Sono i Mondiali del “partido del siglo”, la partita del secolo, della staffetta Mazzola-Rivera che divide l’Italia, ma non solo, ovviamente. C’è anche dell’altro, tanto altro. Sono i Mondiali del Brasile, che alza la Coppa Rimet al cielo per la terza volta e se la prende per sempre, sono gli ultimi Mondiali di Edson Arantes do Nascimento, gli ultimi Mondiali di Pelè. Ma sono anche i Mondiali di Gerd Müller, che con 10 reti si prende la palma di capocannoniere del torneo, sono i primi Mondiali trasmessi a colori dalle tv di mezzo mondo, sono i primi in cui i direttori di gara sventolano i cartellini, idea con la quale l’inglese Aston ha introdotto nel mondo del pallone un linguaggio non verbale universale, comprensibile a tutti. Ma se per caso vi ritrovaste a scambiare quattro chiacchiere con un peruviano, e se domandaste lui un pensiero su quei Mondiali, quelli giocati in Messico nell’estate del 1970, è probabile che la sua risposta sarebbe su per giù la seguente: “Una gran verguenza”. “Una gran vergogna”, sentenzierebbe questo ipotetico peruviano. Perchè questo è stato, per gli eredi dell’impero Inca, il Mondiale del 1970.
Quel Perù – come fa notare “Libero Pallone” – era davvero un gran bel Perù. La stella più luminosa risponde al nome di Teofilo Cubillas. Due dati per tracciare il ritratto di un centrocampista meraviglioso: 338 reti in gare ufficiali carriera, è inserito al 48° posto nella classifica IFFHS dei migliori calciatori del ventesimo secolo. E Pelè, quel Pelè, lo ha designato come suo erede. Ma Cubillas, il miglior calciatore peruviano della storia, in quel Perù non predica nel deserto. In campo con lui, con la casacca della Blanquirroja, vanno altri ottimi giocatori. C’è per esempio Hugo Sotìl, un fantasista che passerà anche in Europa, al Barcellona, uno che secondo il cronista argentino Gerardo Barraza “può dribblare un esercito nello spazio di una mattonella sul pavimento”. In difesa c’è Hector Chumpitaz, “El Gran Capitan”, tra i più grandi esponenti di sempre della tradizione difensiva sudamericana, uno che sa respingere gli attacchi avversari, ma che allo stesso tempo non disdegna le incursioni in avanti: tra club e nazionale, chiuderà la ventennale carriera con 77 reti segnate. Insomma, la qualità, in questa nazionale, davvero non manca. Non manca la qualità, non mancano fiducia e ottimismo: in Perù si respira davvero la convinzione che la vittoria, ai Mondiali messicani, sia alla portata. Ci sono veri e propri squadroni come Italia, Germania Ovest e Brasile, ma la Blanquirroja non ha nulla da invidiare alle potenze tradizionali del calcio mondiale.
E la fase a gironi consolida le ambizioni peruviane. Il 2 giugno del 1970 a Leòn, all’esordio, il Perù supera 3-2 la Bulgaria, che era stata capace di portarsi sul 2-0, prima di subire la rimonta: segnano Alberto Gallardo, Chumpitaz e Cubillas. Sempre a Leòn, il 6 giugno, va in scena il secondo atto del Mondiale del Perù. È un trionfo, il Marocco viene annientato. Il risultato finale dice 3-0 Blanquirroja, Cubillas segna per due volte, Challe firma il momentaneo 2-0. E il Perù si qualifica per la fase successiva. L’ultima partita si gioca il 10 giugno, i peruviani si giocano il primo posto nel raggruppamento con una delle favorite del torneo, la Germania Ovest: Gerd Müller batte Perù 3-1. “Der Bomber”, in quel pomeriggio di giugno del ’70, è in giornata di grazia: segna una tripletta, alla Blanquirroja non basta il sigillo di Cubillas, che comunque conclude la prima fase del Mondiale con l’invidiabile bottino di 4 reti in 3 gare. Il secondo posto nel girone riserva al Perù una sfida da brivido: ai quarti c’è il Brasile dei cinque numeri 10. Pelè, Rivelino, Jairzinho, Gerson, Tostão: cinque assi che il Ct Zagallo manda in campo contemporaneamente, mentre in Italia si ritiene troppo rischioso schierare nello stesso momento Rivera e Mazzola.
Ed è qui, alla vigilia del match contro la Seleção, che si consuma la “gran verguenza”. Per proseguirne il racconto, però, occorre fare un salto indietro nel tempo di oltre un anno. La data è quella del 9 aprile 1969, lo scenario è quello dell’ Estadio Jornalista Mario Filho, il Maracanà di Rio del Janeiro. Si gioca un’amichevole tra la nazionale verdeoro, che è ancora allenata da Saldanha, il quale, non gradito dalla giunta militare che governa il paese, verrà silurato a marzo del ’70, e il Perù. Alla guida della Blanquirroja c’è invece un brasiliano, Didì. Quel Didì, al secolo Valdir Pereira, reso celebre dalla filastrocca “Didì-Vavà-Pelè-Garrincha”, che con la Seleção vinse da protagonista i Mondiali del ’58 e del ’62, secondo la IFFHS il diciannovesimo miglior calciatore del ventesimo secolo. Nella prima ora di gioco, comunque, in campo c’è solo il Perù: in 8 minuti la Blanquirroja va sul 2-0, segnano Gallardo e Baylon. Pelè accorcia le distanze, ma è un episodio: la superiorità del Perù contro la squadra che da lì a poco più di un anno vincerà il terzo titolo Mondiale della propria storia è a tratti imbarazzante. Imbarazzante e, dal punto di vista del Brasile, che sta subendo una vera umiliazione tra le mura di casa propria, irritante. Così, c’è chi perde la testa. Come Gerson, un campione assoluto, uno dei cinque “dieci” di quel Brasile, soprannominato “Canhotinha de ouro”, piede sinistro dorato. Centrocampista meraviglioso, carattere fumantino: sul 2-1 per il Perù entra in maniera criminale su Orlando De La Torre, difensore dello Sporting Cristal, detto “El Chito”. Gli spezza una gamba, ne nasce una rissa di proporzioni spaventose, la partita è sospesa per quasi quaranta minuti. È necessario l’intervento di João Havelange, presidente della federcalcio brasiliana e futuro numero uno della Fifa, che scende dalle tribune per riportare l’ordine e permettere la ripresa della gara. Il Brasile rimonta con Tostão ed Edu, un anno e due mesi dopo, a mezzogiorno del 14 giugno 1970 a Guadalajara, la Seleção e la Blanquirroja si ritrovano l’una di fronte all’altra.
Orlando De La Torre nel frattempo ha smaltito i postumi del brutale scontro con Gerson, ha ripreso il suo posto in nazionale, è sceso in campo da titolare in tutte e tre le gare del girone eliminatorio. È una pedina fondamentale del meccanismo difensivo peruviano: lo chiamano “Mister Anticipaciòn”, tale è la sua abilità nell’anticipare gli attaccanti avversari. Ma a Guadalajara, nell’undici di partenza della Blanquirroja, “El Chito” non c’è. Per comprendere le motivazioni di questa esclusione, serve spostarsi ancora in Brasile. È il giorno prima della partita, a casa della famiglia di Didì, tecnico del Perù, arriva una telefonata: all’altro capo del filo una voce minacciosa, che intima di far sapere a Didì che il giorno dopo, a Guadalajara, De La Torre non deve giocare. E il tono non è quello di un consiglio: “El Chito” non deve giocare. Nel 1970 il potere, in Brasile, è in mano ad una giunta militare presieduta dal generale Emilio Garrastazu Medici, la quale ha deciso, come altre dittature hanno fatto nella propria storia, di cercare nello sport, nel calcio nel caso specifico, la sua legittimazione. Con certi personaggi, insomma, non è consigliabile scherzare. Dal Brasile, così, il messaggio viene dirottato in Messico. Didì capisce al volo: se schiererà De La Torre, questi avrà l’opportunità di consumare la sua vendetta nei confronti di Gerson. E difficilmente “El Chito” se la farà scappare. Ma al Brasile serve il miglior Gerson, per arrivare in fondo al torneo e conquistare definitivamente la Coppa Rimet. Didì si piega alle intimidazioni, De La Torre viene escluso.
L’allenatore della Blanquirroja comunica la sua decisione al “Chito” negli spogliatoi, a poche ore dal fischio d’inizio della partita: lui non la prende bene, secondo la leggenda quasi si arriva all’aggressione fisica, prima dell’intervento dei compagni. Didì sostiene di aver visto “El Chito” fuori forma nella partita persa contro la Germania Ovest, in realtà le spiegazioni non servono: tutti, negli spogliatoi dello stadio Jalisco di Guadalajara, hanno capito qual è la vera ragione della scelta del tecnico carioca. Il quadro è chiaro, la mente di tutti va al Maracanà, a quell’amichevole di quattordici mesi prima, all’entrataccia di Gerson, ai propositi di vendetta di De La Torre. Altre fonti, inoltre, parlano di attriti tra “El Chito” e Didì già dopo la gara contro i tedeschi, quando l’allenatore aveva apostrofato i suoi con parole pesanti: secondo il Ct, i ragazzi avevano perso di proposito in modo da ottenere l’incrocio col Brasile. La tensione è alle stelle, la decisione è presa: De La Torre non gioca, il Perù cade, il Brasile va avanti, Didì, con ogni probabilità, mette in salvo la pelle. Rivelino, Tostão (doppietta) e Jairzinho gonfiano la rete per quattro volte, alla Blanquirroja non bastano Gallardo e il solito Cubillas, finisce 4-2. La Seleção procede spedita verso la Coppa Rimet, che verrà vinta battendo in finale l’Italia, il Perù torna a casa carico di rabbia e di rimpianti.
La controprova non l’avremo mai, mai sapremo come sarebbe andata quella partita con De La Torre in campo, ma i peruviani ne sono convinti: quella Coppa, all’Azteca, la Blanquirroja avrebbe potuto alzarla per davvero. Poteva essere un trionfo storico, fu solo “una gran verguenza”. Cinque anni dopo, tra il settembre e l’ottobre del 1975, quella splendida generazione di calciatori peruviani consumerà la sua vendetta eliminando il Brasile nelle semifinali di Copa America e alzerà il trofeo, ad oggi l’ultima affermazione della Blanquirroja nella massima competizione continentale.