Sono circa le sei e un quarto di sera, quando si chiude questa storia. Un attaccante piccolo e tarchiato di nome Erol Keskin spedisce in rete l’ultimo pallone della partita e del poco felice Mondiale della Corea del Sud: in quest’ultima partita, ne hanno prese sette dalla Turchia; poco meglio delle nove rimediate tre giorni prima dalla fortissima Ungheria. Nessun gol segnato, nessun punto conquistato, la Corea del Sud torna a casa sconfitta ma con uno strano senso di soddisfazione: meno di un anno prima il loro paese era in guerra, mentre adesso è una delle terre del calcio, e la seconda squadra asiatica ad aver disputato un Mondiale. È una federazione giovane, in uno sport che sta ancora cercando di capire come diventare globale: quella è stata la prima edizione dei Mondiali in cui siano disputate le qualificazioni in Asia. La Corea del Sud ci è arrivata distrutta, travolta dal jet lag (per arrivare in Svizzera hanno dovuto fare quasi 50 ore di viaggio, con vari scali in giro per l’Asia) e con pochissimo tempo per riposarsi: nella sfida inaugurale contro l’Ungheria, quattro giocatori hanno dovuto lasciare il campo prima del 90′ perché esausti.
Quella è un’altra epoca: il regolamento non prevede le sostituzioni, e i coreani finiscono la partita in sette contro undici, stringendo i denti perché un’altra uscita dal campo significherebbe la sconfitta a tavolino, e la loro prima partita della storia dei Mondiali la vogliono giocare tutta, a costo di prendere più gol di quanti uomini hanno in campo. L’albo d’oro ricorda i numeri, e dimentica questi dettagli. E così, per la partita con la Turchia l’allenatore Kim Yong-sik deve cambiare sette giocatori della formazione titolare con altri più riposati.
Bel personaggio, Kim, quasi iconico nella Corea del Sud dell’epoca: da ragazzo è stato indubbiamente il miglior calciatore del paese, era difensore centrale o centrocampista difensivo, anche se che aveva così tanta classe e senso tattico che praticamente giocava a tutto campo. Era talmente bravo che, nel 1936, il Giappone lo convocò per il torneo olimpico di Berlino, di cui fu uno dei giocatori migliori, servendo ad Akira Matsunaga l’assist per il gol del definitivo 3-2 sulla Svezia, al primo turno: per la prima volta, una squadra asiatica sconfiggeva un’europea in un match ufficiale. Ah sì, spieghiamo questa cosa del Giappone. Nel 1905, la Corea era diventata un protettorato nipponico, era stata occupata e, nel giro di cinque anni, trasformata ufficialmente in una colonia dell’impero. Ma era significativo che il Giappone, che ambiva a diventare la prima grande potenza del calcio asiatico, avesse proprio un coreano come Kim Yong-sik (o meglio, Yoshoku Kin, com’era chiamato durante l’occupazione) come propria stella.
La seconda guerra mondiale si era portata via gli anni migliori della carriera del primo grande campione asiatico, e quando finì, nel 1945, Kim aveva ormai 35 anni. Tre anni dopo, con la fine dell’occupazione, la Federcalcio coreana era stata ricostituita, e la Nazionale aveva potuto prendere parte alle Olimpiadi di quell’anno, alle quali Kim prese parte in qualità di allenatore-giocatore. La Corea del Sud ottenne una clamorosa vittoria per 5-3 sul Messico nella partita inaugurale, scrivendo un altro pezzo di storia del calcio globale. È giusto continuare a parlare di lui, perché la storia del calcio coreano, ma un po’ di tutto il paese, è strettamente legata con quella di Kim Yong-sik. Il dopoguerra, in Corea, fu molto travagliato: il paese era in subbuglio, e gli americani avevano instaurato un governo militare, peraltro mantenendo al loro posto molti vecchi funzionari giapponesi; i comunisti avevano così rotto le relazioni con le altre forze politiche, instaurando un governo autonomo nel nord, non riconosciuto dagli americani. La penisola era stata divisa lungo il 38° parallelo in una zona settentrionale governata dai comunisti filosovietici di Kim Il-sung, e in una meridionale in mano ai nazionalisti filostatunitensi di Syngman Rhee. Nel giugno 1950, i comunisti del Nord decisero di riunificare la Corea e invasero il Sud, facendo scattare interventi da tutto il mondo a sostegno dell’una o dell’altra parte. La guerra fredda era diventata improvvisamente molto calda. Kim Yong-sik, all’epoca un 40enne che ancora non si rassegnava a ritiro, ricevette la chiamata alle armi, e durante questo periodo fu trasferito a giocare per la squadra dell’esercito. Lì ritrovò Park Kyu-chung, di ruolo difensore, che era stato suo compagno di squadra nel 1948, e che Kim avrebbe convocato ancora nel 1954. Ma in verità, praticamente tutta la squadra che poi prese parte ai Mondiali svizzeri aveva servito da qualche parte sotto le armi, durante la guerra.
La guerra finì il 27 luglio 1953, quando a Panmunjeom, un villaggio sul confine tra le due Coree, americani e cinesi firmarono un armistizio che riconosceva i due stati della penisola e ristabiliva la situazione pre-bellica. Se per gli stranieri la guerra era finita, però, per entrambi i coreani andava avanti, poiché nessuna delle due nazioni accettò di riconoscere gli accordi di pace. Tra uno schieramento e l’altro, c’erano state oltre 950.000 vittime coreane, contando morti, feriti, dispersi e prigionieri di guerra. E poi tanti che avevano dovuto lasciare la propria terra per andare a vivere dall’altra parte del confine, perché i liberali erano perseguitati al Nord tanto quanto i comunisti lo erano al Sud.
Tra questi c’era anche un ragazzo ventenne di nome Choi Chung-min, cresciuto a Pyongyang, ma che allo scoppio del conflitto era fuggito al Sud con la famiglia. Giocando da attaccante nel KACIC, la squadra del controspionaggio sudcoreano, si era messo in mostra come un talento cristallino, così che Kim Yong-sik lo aveva subito preso sotto la propria ala, convocandolo in Nazionale non appena fu messo a capo della selezione nel 1953. Pochi mesi dopo, a Seul si iniziava a parlare delle qualificazioni ai Mondiali, l’evento perfetto per mettere la nuova Repubblica di Corea sulle mappe dello sport mondiale, e mostrare al mondo un’immagine moderna di un paese che usciva da una guerra sanguinosa. La Asian Football Confederation ancora non esisteva, e il calcio nel continente non era così strutturato: la Corea del Sud era l’unico paese in grado di presentare una squadra per il posto che la FIFA riservava all’Asia. No, non l’unica: c’era anche il Giappone, che fino a solo otto anni prima era stato costretto a ritirarsi dalla penisola dopo quarant’anni di violenta occupazione. Lo spareggio asiatico presentava quindi un immediato problema: il presidente Syngman Rhee avvertì subito che non avrebbe permesso ai giapponesi di rimettere piede in Corea del Sud. La FIFA propose allora di giocare entrambi i match a Tokyo e i sudcoreani accettarono, nonostante l’evidente svantaggio del fattore campo. A Seul, il governo nazionalista caricò quella partita di molte aspettative, facendone l’occasione di vendetta del popolo coreano contro gli antichi dominatori. Siccome i giocatori e l’allenatore avevano insistito molto per giocare, anche a costo di affrontare due sfide in Giappone, furono messi al corrente del fatto che una sconfitta avrebbe avuto grosse conseguenze sulle loro vite. Divenne la classica partita di calcio che è più di una partita di calcio. Il 7 marzo 1954, il pubblico dello stadio Meiji Jingu di Tokyo assistette a un evento destinato a segnare per sempre la rivalità tra i due paesi: la Corea del Sud, trascinata da Choi Chung-min (autore di una doppietta nel finale), trionfò per 5-1. Un risultato largo che all’epoca significava poco in termini di speranze di qualificazione, perché non esisteva ancora la regola del gol in trasferta: una sconfitta nel ritorno avrebbe comportato una terza partita. Una settimana dopo, però, i sudcoreani riuscirono a fermare sul 2-2 i nipponici.
Su una cosa, però, questo articolo è stato bugiardo. Inizia dicendo che questa storia finisce con la sconfitta contro la Turchia ai Mondiali del 1954, e invece non è vero. Quello stesso anno sorge la Asian Football Confederation, che decide subito di organizzare un proprio torneo continentale: un progetto non da poco, visto che l’unica cosa simile, nel resto del mondo, era il Campeonato Sudamericano, antesignano della Copa América. L’Asia voleva conquistarsi un ruolo di primo piano nel panorama calcistico globale. Nel 1956, quindi, la Corea del Sud si presentò alla prima edizione della Coppa d’Asia, dove era considerata l’outsider principale della strafavorita Israele, che gareggiava addirittura nelle qualificazioni Mondiali della UEFA. Nello scontro diretto, i coreani si imposero per 2-0, con una grande partita del solito Choi chung-min e reti di Woo Sang-kwon e Sung Nak-woon, e si spianarono la strada per la conquista del titolo continentale. Quattro anni dopo, la Corea del Sud concesse il bis, sempre con Choi a tirare le fila della squadra, in un torneo che andava espandendosi, accogliendo paesi come India e Iran, destinato a diventare una delle prossime potenze del calcio asiatico. Quella della generazione d’oro del calcio sudcoreano, è una storia scivolata nel dimenticatoio. Fino al 2002, la maggior parte delle persone faceva coincidere la storia del calcio locale con l’exploit della Corea del Nord ai Mondiali del 1966, non ricordandosi com’era iniziata questa storia. Il quarto posto conquistato in casa nel 2002 e le prestazioni odierne di Son Heung-min ci ricollegano alle origini di quella che è stata la prima potenza del calcio asiatico del dopoguerra.
Valerio Moggia, “La Corea del Sud, tra la guerra e il Mondiale”