Michel, il campione dell’Avvocato
Mar 12, 2021

Basta conversare cinque minuti con Michel Platini e si capisce che lui e l’Avvocato erano due che non potevano non capirsi. Di più, sentirsi, ammirarsi e in qualche modo riflettersi l’uno nell’altro. Quella leggerezza, quell’ironia tagliente (e mai indulgente), poche parole, quelle giuste, nessuna falsa modestia, il sorriso di chi contempla l’umanità da un punto di vista che non è dato a tutti. Destinati ad intendersi oltre le parole e il calcio. Non al di là della Juve, perché quella è una metafora: un’emozione, un sentimento, un’aria del mondo. Per spiegare il legame intimo che aveva con quella maglia, l’Avvocato raccontò una volta che quando gli capitava anche soltanto di vedere per strada dei bambini che davano due calci al pallone vestiti di bianconero, non poteva fare a meno di fermarsi.

Sorride, Platini, al racconto di questo aneddoto: «Sì, era così».

Com’è cominciata questa storia?

«Mi ha voluto lui, questo è il punto di partenza, contro il parere di Boniperti che aveva già fatto firmare Brady per altri due anni. È stata una rivoluzione nella società. Per lui, l’avermi scelto, è sempre stato un motivo di fierezza, era la dimostrazione che si intendeva di calcio».

L’Avvocato e Le Roi

Chi gli aveva parlato di lei?

«Aveva molti amici in Francia e gli avevano detto che ero abbastanza buono. Tra loro il direttore dell’“Equipe” Edouard Seidler. Avevo già firmato un precontratto all’Inter e quando la Juve mi ha voluto, ho chiamato Milano e mi hanno risposto: abbiamo già preso altri due stranieri dunque lei è libero di andare dove vuole».

Solo questo?

«L’altro punto importante è che io ero francese, l’Avvocato parlava benissimo francese, per lui la Francia era il Piemonte, Vittorio Emanuele e tutte quelle cose lì. Per di più ero figlio di piemontesi. Insomma non appartenevo certo al suo mondo reale, ma a quello ideale sì».

L’Avvocato e Platini al Combi

Ma lei lo conosceva?

«No, assolutamente. Tutti mi dicevano l’Avvocato di qua, l’Avvocato di là… Ma io ero un ragazzo e quando Boniperti, dopo aver firmato il contratto, mi passò il telefono dicendo parla con l’Avvocato, io non sapevo chi era. L’Avvocato chi? Non capivo in quale mondo ero caduto, non conoscevo nemmeno il calcio italiano. La tv francese il sabato dava i gol dei campionati tedesco e inglese. Neanche la Juve conoscevo. Sapevo del Milan per le sfide contro l’Ajax, dell’Inter per la partita col Benfica, ma la Juve era solo un nome». (Michel quando parla della Juve, talvolta lo dice alla francese, la Jùv).

Si racconta anche che una delle prime telefonate che gli fece l’Avvocato, fu dopo una sua partita ancora in Francia dicendole: hai giocato bene il primo tempo, male il secondo. E lei, ragazzo un po’ insolente, gli rispose: «Non ho giocato male, solo meno bene». È vero?

Michel e il Pallone d’Oro

(Sorride di nuovo, Michel) «Io sono fatto così, non mi tenevo, ogni tanto facevo anche qualche battuta scherzosa sull’Avvocato, una cosa proibita in tutt’Italia e soprattutto a Torino. Ma il nostro rapporto è diventato presto qualcosa di bene, di tranquillo. Eccetto quando mi chiamava alle 6 del mattino… una delle grandi rotture… Mi è capitato di dire al centralinista: rispondi che sto dormendo, che chiami più tardi».

I momenti importanti?

«Tanti, ne ricordo due. Il primo quando avevo deciso di tornare a casa, mi ha chiamato e mi ha chiesto: smetti davvero o vai in un’altra società? Ho risposto che non avevo più benzina, finito».

E l’Avvocato?

«Mi ha chiesto se volevo continuare a lavorare con lui. Gli ho risposto di no: sono come un marinaio che ritorna a casa».

Michel Platini con l’avvocato Gianni Agnelli e Cesare Romiti

Il secondo momento?

«Quando compì 70 anni, ha dato una festa a Parigi, Chez Maxim’s. Avevo ricevuto l’invito, c’era scritto “black tie”, mi sono presentato con una cravatta nera, non sapevo che volesse dire smoking. Gli ho portato in regalo il mio primo pallone d’oro. Lui è rimasto molto colpito e mi ha chiesto: ma è tutto d’oro? Gli ho risposto: scherza? L’avrei tenuto».

E invece?

«Se l’è portato a casa, adesso ce l’ha John. Quella sera, poi, ha fatto uno speech in francese e in italiano e ha parlato di tre persone, di suo nonno, di Kissinger e di me dicendo: abbiamo preso un giocatore da un Paese che non capisce niente di calcio e ci ha insegnato a giocare a pallone. Quella sera sono rimasto impressionato, ho sentito qualcosa di profondo».

Poi si dice che la sorpresa l’abbia ricambiata quando lei ha compiuto 40 anni.

«Sì, è venuto con la barca a Cassis, vicino a Marsiglia, dove ho una casa al mare. Veniva tutte le estati. Lui in genere stava in Corsica, faceva la traversata, ormeggiava il suo yacht al largo, un marinaio con la barchetta veniva al porto, vicino al benzinaio, e mi portava da lui».

E quanto ci restava?

«Due, tre ore a parlare. Mi chiedeva di tutto e di tutti: la Juve, il mercato, il calcio. Bevevamo un bicchiere…».

Platini è senz’altro uno dei più grandi campioni di tutti i tempi, paragonabile a Pelé, Cruyff, Di Stefano. Quando ha lasciato la Juventus è stata una grossa perdita: lo rimpiangiamo”

Champagne?

«Macché, lui beveva solo acqua».

E la sorpresa?

«Mi ha portato un pallone di platino».

Vero, però.

«A dire la verità non so, ma credo di sì».

A parte questo, cosa le ha dato il rapporto con l’Avvocato?

«La libertà di fare, di pensare, soprattutto di pensare di poter fare quello che ti piace fare nella vita».

Anche libertà economica.

«Certo, guadagnavo un po’ più degli altri, ma non basta. Mi ha dato la libertà di scegliere il mio destino in modo un po’ più filosofico. Senza l’ossessione dei soldi».

Libero anche di lasciare la Juve e non dipendere da lui?

«Certo, anche la libertà di lasciarlo».

Com’erano le vostre conversazioni?

«Lui sapeva ascoltare. Anzi direi che soprattutto ascoltava. Faceva un’enormità di domande».

E parlava di sé, della famiglia, della Fiat?

«Mai. Non ricordo di avergli mai sentito dire niente che lo riguardava. Ma aveva curiosità e sensibilità per me, mi chiedeva molto della mia famiglia. Da lui ho imparato la semplicità e che i più grandi sono i più semplici».

Sul calcio aveva curiosità tecniche?

«Lui aveva scelto me, il miglior giocatore del mondo, dunque si riteneva un grande esperto di calcio, non aveva bisogno di chiedermi consigli o giudizi». (Sorride ancora, ma è ovvio che pensa di aver detto la pura e semplice verità).

È vero che voleva Maradona?

«Gli piaceva molto, come Zico. Ma non so se ci fu mai una vera trattativa. Invece fu il Napoli che si fece avanti per portare me a giocare con Maradona».

E ci furono altre squadre italiane che la volevano?

«Quando Berlusconi comprò il Milan, mi chiamò. Andai ad Arcore, abbiamo fatto un pranzo, ma dopo cinque minuti che lo ascoltavo ho capito che non avrei mai tradito l’Avvocato e che in Italia non potevo giocare per nessun’altra squadra che non fosse la Juve. E poi Torino era la città giusta per me: un po’ fredda, un po’ distante. Bellissima».

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