“Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba”
(Dante, Paradiso).
Perdonerà Dante il più che improprio abuso, ma, quando si guarda a “entità” calcistiche come Paolo Di Canio, il suo indiscusso genio non può essere rinchiuso nei vocaboli inadeguati della nostra lingua “troppo umana”.
Di Canio è il bambino che nasce nel Quarticciolo e, circondato da romanisti, si innamora della Lazio, seguendola in ogni trasferta.
Di Canio è il ragazzino gracile che riesce a sfondare nella Pro Tevere Roma, riuscendo nel 1988 ad approdare alla Lazio.
Di Canio è il ventenne incredulo che nel derby gonfia la rete e va ad esultare sotto la curva romanista. Come Giorgio Chinaglia.
Di Canio è il profeta mai davvero compreso in patria, che fugge, sognando, nel Regno Unito.
Di Canio è il giocatore dell’anno nel Celtic. Di Canio È il West Ham, semplicemente. Quattro anni di adorazione reciproca. Di simbiosi. Un corpo unico. Energia. Colpi mai visti prima, urla, gol, tifosi in lacrime.
Di Canio è il premio Fair Play 2000.
Di Canio è la telefonata che riceve da Sir Alex Ferguson il giorno di Natale, che lo supplica di trasferirsi nel “suo” Manchester stellare. E Di Canio è il rifiuto secco a questa proposta, in nome dell’eterna fede al West Ham. Entra di diritto nel Pantheon della squadra londinese.
Di Canio è avere sempre fame, è chiudere il cerchio: è tornare alle radici, nella sua Lazio, rinunciando a tre quarti dello stipendio, per stupire ancora. Ricalca la sua storia, segnando nella stessa porta e nella stessa partita che lo aveva battezzato sedici anni prima, nel giubilo della folla e del telecronista (“Paoletto mio!“).
Di Canio è l’allenatore in giacca e cravatta che non ha paura di sporcarsi le ginocchia, non esita a tuffarsi nel prato per festeggiare con il suo Sunderland, squadra sfortunata ma unica in quanto a grinta, trascinato dal coro liturgico senza fine: “Paolo Di Canio, you are the love of my life / Paolo Di Canio, I’d let you shag my wife / Paolo Di Canio, I want dirty knees too”.
Di Canio è l’inguaribile ragazzo che a quarantacinque anni, nella partita celebrativa del West Ham, dopo una fulminea serpentina, trova la rete con un letale diagonale.
Di Canio è anche e soprattutto un provocatore nato. Il più controverso, contestato per tutta la sua carriera, esagerato, per molti il cattivo. Un simbolo. Amato o odiato, senza vie di mezzo. Non ci sono e non ci possono essere, su di lui, mezze misure. Ma su una cosa siamo tutti d’accordo: è stato una delle ultime Bandiere del mondo che ci piace troppo.