Dopo ventun anni la Coppa dei Campioni 1986-’87 riprende la strada della penisola iberica. Come l’anno prima la Steaua, anche il Porto non era annoverato tra i favoriti della vigilia, ma ciò non significa che alla fine non abbia meritato il trionfo. I lusitani allenati da Artur Jorge (due anni e due titoli con i biancoblu) non erano la tipica squadra portoghese abile nel l’addormentare i ritmi della partita per poi lasciar partire accelerazioni improvvise. Ma una squadra votata all’attacco, casa o trasferta non importava, l’imperativo era vincere imponendo il proprio gioco. Le stelle non mancavano: il due volte Scarpa d’oro (’83 e ’85) Fernando Gomes, l’algerino Rabah Madjer e l’enfant prodige Paulo Futre, grande talento del calcio portoghese, che soprattutto per gravi problemi fisici avrà una carriera nettamente inferiore alle aspettative. Il cammino del Porto fino alle semifinali non è dei più impegnativi, i maltesi del Rabat Ajax e i cecoslovacchi del Vitkovice vengono superati in scioltezza, mentre leggermente più ostico si rivela il Bröndby nei quarti. Strada facendo non mancano nel panorama generale le vittime eccellenti, anche a causa di abbinamenti suicidi, vere e proprie finali anticipate. Il secondo turno è fatale alla Juventus, eliminata nello scontro stellare con il Real Madrid, e ai detentori della Steaua, superati dall’Anderlecht che nei quarti capitolerà col Bayern Monaco.
Le semifinali presentano così una grande classica, Bayern-Real, e una novità, Porto-Dinamo Kiev, sfida tra due nuovi modi di vedere e interpretare il calcio. Nell’andata la Dinamo di Lobanovski limita i danni e torna in Urss con un passivo accettabile (1-2). Il Real invece crolla all’Olympiastadion, anche a causa di un arbitro, lo scozzese Valentine, che assegna un rigore dubbio ai tedeschi e fa saltare i nervi ai madridisti che finiscono in nove. Al ritorno il Porto si impone a sorpresa anche a Kiev, dove non cerca di amministrare il vantaggio dell’andata, ma gioca a viso aperto, imponendo un vigoroso stop al calcio futuribile di Lobanovski. A Madrid il Real è chiamato all’ennesima rimonta, ma questa volta la legge del Bernabeu, più volte testimone negli ultimi anni di clamorose rinascite, non viene applicata e il Bayern, col fiatone, si accomoda in finale come Udo Lattek e Fritz Scherer (rispettivamente tecnico e presidente dei bavaresi) avevano pronosticato all’indomani del sorteggio: prenotando addirittura l’albergo in cui il Bayern sarebbe andato in ritiro prima della finalissima. “Male che vada, avremo la possibilità di stare alcuni giorni in una delle più belle città del mondo” aveva detto la diabolica coppia.
La finale va così in scena al Prater, con i tedeschi favoriti, anche perché il Porto lamenta le assenze di Gomes, Jaime Pacheco, Casagrande e Lima Pereira. Il primo tempo è di marca tedesca soprattutto dopo il fortuito gol di Kögl, lesto ad appoggiare in rete di testa a porta sguarnita un inaspettato assist dell’avversario Magalhães che, sempre di testa, aveva messo fuori causa il suo portiere. Sulle ali dell’entusiasmo, il Bayern costruisce altre palle gol soprattutto con Rummenigge junior, bravo a procurarsele quanto maldestro a sprecarle. Nell’intervallo Artur Jorge azzecca la mossa-partita, inserendo il brasiliano Juary, ex del calcio italiano. Il Bayern cala e i portoghesi assumono il controllo del gioco. Juary è una spina nel fianco della difesa bavarese, dove Futre penetra come una lama nel burro, sprecando però clamorose occasioni.
Si arriva così a dodici minuti dal termine, quando entra in scena la coppia Madjer-Juary. Il brasiliano fugge sulla destra, entra in area e porge un assist all’algerino, che con un colpo di tacco (“il tacco di Allah” è il suo soprannome) insacca. Due minuti dopo Madjer ricambia, pennella un cross da sinistra sul quale Juary anticipa Pfaff e manda in scena i titoli di coda su questa edizione.
Il trionfo sotto la neve
È il 13 Dicembre 1987 quando, al National Stadium di Tokyo, si disputa la Coppa Intercontinentale. Dal 1980, anno da cui la competizione si svolge nella città giapponese, sono quasi sempre le squadre sudamericane ad avere la meglio, l’unica europea a vincere era stata la Juventus di Platini nel 1985. Le sfidanti, per questa edizione, sono il Porto e il Peñarol. I portoghesi, come visto, hanno vinto un po’ a sorpresa la Coppa dei Campioni, sconfiggendo il Bayern Monaco nella finale al Prater di Vienna.
Sono anni di prime volte in Europa (come quella della Steaua Bucarest nel 1986), forse agevolate dall’esclusione degli squadroni inglesi a seguito della strage dell’Heysel. Il Porto, orfano dell’asso Paulo Futre passato all’Atletico Madrid, si schiera con un semplice 4-4-2. In porta gioca l’esperto Józef Mlynarczyk, titolare della Polonia bronzo a Spagna ’82. La difesa ha nell’intesa la sua forza: troviamo infatti il capitano João Pinto, terzino destro fluidificante, assistito da Augusto Inacio e Lima Pereira, tutti e tre portoghesi, esperti e da diversi anni nelle file del Porto. A completare il pacchetto difensivo c’è il difensore centrale Geraldão, un gigante brasiliano, ruvido, dalla buona tecnica, potente fisicamente e con il vizio del gol su punizione. A metà campo giostra Rui Barros, alto solo 159 centimetri, un funambolo, con la sua velocità si esalta in contropiede trovando spesso la via gol: non era un caso infatti che a volte venisse schierato attaccante.
Davanti troviamo il bomber Fernando Gomes, basso e rapido, gran realizzatore (Scarpa d’oro 1983 e 1985), non ha avuto grandi fortune in nazionale, un classico per gli attaccanti portoghesi, una scuola su cui grava storicamente la pesante eredità di Eusebio, un fuoriclasse che sapeva unire forza fisica, tecnica e concretezza, mai sostituito degnamente, forse solo ai giorni nostri con Cristiano Ronaldo. Per finire, troviamo Rabah Madjer, il miglior giocatore algerino della storia, l’uomo in più della finale di Vienna, riaperta, a dodici minuti dalla fine, proprio da una sua finezza di tacco. In panchina siede il giramondo Tomislav Ivic, sostituto del campione d’Europa Artur Jorge. Il credo dello stratega croato è molto semplice: la vittoria da sola vale la pena, quello che conta è il risultato, lo spettacolo è superfluo. La tattica si basa principalmente sulla quadratura difensiva, fondamentale per poi colpire in contropiede grazie ai vari velocisti bravi tecnicamente a disposizione di Ivic. Insomma, massimo pragmatismo. Chissà, magari Josè Mourinho, il mago di Setubal, è stato suo allievo
I mirasoles uruguayani sono guidati da un giovane allenatore, Oscar Washington Tabarez. Il gioco del Peñarol non è attendista come quello portoghese, basato su un 4-3-3 fatto di corsa e pressing asfissiante. I gialloneri sono una compagine storicamente abituata alle grandi sfide e alle vittorie internazionali, ma, nonostante questo, in rosa non figurano grandi nomi come i Pepe Schiaffino o gli Alberto Spencer di una volta, i tempi gloriosi sono lontani ed il Sudamerica è sempre più saccheggiato dai club europei. I giocatori più celebri sono senz’altro il portiere Eduardo Pereira, nazionale uruguayano, e Jose Oscar Herrera, duttile centrocampista all’occorrenza difensore. Il livello medio della squadra certamente non eccelso, è confermato dalle successive esperienze europee nefaste di alcuni mirasoles, come quella di José Perdomo, centrocampista portato al Genoa dal professore Franco Scoglio (pace all’anima sua) che si rivelò essere solo un gran bidone, ricordato per lentezza e fallosità.
Insomma, mancano stelle del calibro dei vari Puskás, Pelè, Di Stéfano ed Eusebio, protagonisti delle gloriose edizioni degli anni Sessanta, così si prospetta una sfida a scacchi fra i due allenatori. C’è però una cosa che i due mister non possono controllare: il tempo. Proprio quel giorno, si abbatte su Tokyo una vera e propria bufera di neve. Viste le provenienza, è probabile che la maggior parte dei giocatori non avesse mai visto la neve. Senza le tecnologie e i trattamenti dei giorni nostri, il campo è completamente bianco. La temperatura è largamente sotto lo zero, tira un vento gelido, le linee del campo manco si vedono perché non segnate in rosso come da regolamento. Le condizioni sono davvero proibitive, ma con tifosi venuti da tutto il mondo non è possibile rinviare, si deve giocare. La federazione mette a disposizione anche guanti bianchi di lana, ma addirittura gli impavidi portoghesi si presentano a mezze maniche. Tutto è pronto per iniziare!
Manca anche il tipico pallone arancione da neve, la situazione è davvero tragica. Con il passare dei minuti, il terreno si trasforma sempre più in un acquitrino, portare palla diventa impossibile perché la sfera si ferma appena tocca terra. Dopo pochi minuti, esplode addirittura il pallone. Tra un’interruzione e l’altra, la partita prosegue a ritmi blandi, più consoni al Porto, mentre il Peñarol, che aveva appena lasciato l’estate sudamericana, si ritrova penalizzato fortemente dal campo pesante perché ne limita la foga agonistica. Così, verso fine primo tempo, sono i dragoes a passare in vantaggio. Lancio lungo per lo scatto di Madjer, il suo marcatore si impantana e scivola mentre un secondo difensore viene lasciato sul posto da una finta a rientrare dell’algerino che, portata palla sul sinistro, calcia in diagonale. La palla, destinata in rete, causa fango si ferma sulla linea dove l’accorrente Fernando Gomes, da buon opportunista, la insacca. La partita ora è nelle mani del Porto che però preferisce lasciare l’iniziativa agli uruguayani e controllare il vantaggio senza rischiare. Tabarez lancia nella mischia un altro attaccante ma la difesa biancoblu sembra resistere grazie anche ad uno straordinario Mlynarczyk. Tutto va bene per il Porto fino all’80’: punizione dalla destra di Eduardo da Silva, sponda di testa per Ricardo Viera che, nella mischia, stoppa la palla di coscia ed in girata pareggia. Si va ai supplementari. L’agonia delle due squadre sembra non dover finire, tutti desiderano una doccia calda mentre la forza nelle gambe viene sempre meno.
Tra i giocatori regna un inaspettato fair-play, forse per compassione reciproca viste le rigide condizioni atmosferiche, sta di fatto che l’arbitro non tirerà fuori nemmeno un cartellino. Tutti sembrano tacitamente d’accordo a terminare la sfida diplomaticamente ai calci di rigore. Tutti tranne uno. Madjer è scatenato, la sua è una prova tecnica e atletica strepitosa, non sembra risentire della stanchezza e del campo. Verso la fine dei novanta minuti è imprendibile, scatta su un lungo lancio, scardina con prepotenza la palla all’ultimo uomo del Peñarol, ma calcia fuori a tu per tu con Pereira, bravo ad uscire e a chiudergli lo specchio.
Nel primo tempo supplementare l’algerino ha un’altra occasione: parte a galoppo dalla trequarti, i difensori non riescono a fermarlo neanche trattenendolo ma a Madjer sembra mancare lucidità perché arrivato di fronte a Pereira si allunga troppo la palla. I rigori sono sempre più dietro l’angolo perché Madjer non sembra in grado di sbloccare la situazione. È il 108’, contropiede del Porto, lancio lungo sul solito Madjer, la palla si impantana fra i piedi del giallonero Trasante, così Madjer riesce a sradicargliela e, di prima intenzione, dalla trequarti, fa partire una parabola morbida che, a pallonetto, scavalca Pereira, troppo fuori dai pali. Stavolta la palla è più forte della fanghiglia, non si ferma e finisce dolcemente in rete: è la magia che chiude il match, il Porto sale sul tetto del mondo grazie al suo indomito fuoriclasse, un vero leone sotto la neve. Senza la neve, avremmo mai assistito ad una prestazione così?
Tra i mirasoles, poche sono state le carriere memorabili. Certamente per noi italiani l’unica degna di nota è quella di Jose Herrera, che tra Cagliari e Atalanta ha ben figurato. Tra i dragoes, invece, Fernando Gomes continuerà a segnare diventando il primo marcatore del club in campionato con 288 gol. Il piccolo Rui Barros tenterà fortuna all’estero e approderà alla Juve dove vincerà anche una Coppa UEFA. E Madjer? Dopo la definitiva consacrazione in Coppa Intercontinentale è cercato da tutti i massimi club europei. Il Bayern, sconfitto nella finale del 1987, è da tempo sulle sue tracce ma l’algerino preferisce l’Inter di Pellegrini. Peccato che, dopo la presentazione ufficiale, viene rispedito al mittente causa presunta rottura del bicipite femorale sinistro, frutto di un vecchio infortunio, e viene sostituito da Ramon Diaz in quella che sarà l’Inter dei record. Va al Valencia per un anno ma le cose non vanno bene: nessuno più lo vuole, ormai non è più il tacco di Allah ma il giocatore rotto. Torna al Porto ma non è più il Madjer di Tokyo e andrà a chiudere la carriera in Qatar nel 1991.
Bibliografia: “Storie di Calcio”