Lo chiamavano hijo del viento (figlio del vento) perchè la leggenda vuole che fosse capace di percorrere i 100 mt in 11 secondi. Fisico asciutto e scattante, chioma ossigenata da rockstar e faccia scavata: si parla di Claudio Paul Caniggia, l’uomo che viene ancora ricordato per aver posto fine all’avventura della Nazionale italiana ai Mondiali del ’90 con un colpo di testa beffardo su Zenga. Ala argentina dal talento innato, Caniggia può essere aggiunto al lungo elenco dei giocatori che hanno reso meno di quanto avrebbero potuto a causa di comportamenti fuori dal campo alquanto discutibili.
Claudio Caniggia nasce ad Henderson nel 1967 e, strano dirsi per un argentino, cresce con il mito di Garrincha. Il calcio però all’inizio è solo un hobby, la vera passione di Caniggia è l’atletica: 100, 200, 400 metri e salto in lungo le sue specialità. A 15 anni arriva la chimata del River Plate, club con il quale milita fino al 1988 realizzando 8 gol in 53 presenze e con il quale vince campionato, Copa Libertadores e Intercontinentale. La vera svolta arriva però il giugno 1987 a Zurigo: Caniggia esordisce in nazionale in un match amichevole contro l’Italia e incontra Diego Armando Maradona, fresco vincitore del Mondiale messicano. Un incontro che segna l’inizio di un intensa e fraterna amicizia tra i due.
Il suo talento allora viene notato dai dirigenti del Verona, che lo portano in Italia in quella che si appresta ad essere la prima di tante esperienze nel calcio europeo. Il giovane talento argentino si fa ben presto notare e non solo per il suo look appariscente (con un volto efebico circondato da una foltissima chioma bionda ossigenata): presentato ai tifosi come «un Fanna coi capelli», Caniggia mette in mostra doti straordinarie abbinate a una velocità impressionante. Ad ogni falcata sembra quasi sul punto di cadere, salvo poi riuscire miracolosamente a stare in piedi per completare la corsa con invitantissimi cross o conclusioni a rete di rara freddezza.
Eccezionale il suo debutto in Coppa Italia con il Torino: in occasione del terzo gol della vittoria (4-0), percorre palla al piede tutta la linea laterale sinistra seminando avversari: poi, arrivato alla bandierina del calcio d’angolo, svolta incredibilmente ad angolo retto verso la porta avversaria e, in equilibrio sulla linea di fondo, solo a due passi dal palo mette all’indietro per Pacione un pallone facile facile da trasformare in gol. Alla fine il pubblico gli tributa una meritata ovazione.
Caniggia si disimpegna con onore per tutta la prima parte del campionato decollando più volte per voli promettenti all’attacco. Ma, quando i difensori riescono a prenderlo, subisce solenni randellate, talora impunite da arbitri poco propensi a proteggerlo. L’ennesima scarpata lo blocca definitivamente a Bologna procurandogli una dolorosa frattura. L’infortunio gli fa perdere praticamente tutto il campionato, dedicandosi con maggior agio a coltivare quelle stupide sregolatezze che ne hanno poi indubbiamente guastato la carriera.
Nel 1989-’90 Caniggia si trasferisce all’Atalanta, in un affare che porta in riva all’Adige lo svedese Robert Prytz, e a Bergamo disputa forse la sua miglior stagione: in campionato è irresistibile: le difese faticano a contenere la sua agilità e rapidità di movimento tanto che l’argentino mette a segno ben 10 reti. L’ottima annata gli vale la convocazione di Italia ’90 dove Claudio entra tristemente nella storia del Calcio italiano. Gli azzurri di Vicini, partiti con l’obbligo di vincere, giocano alla grande le prime fasi del torneo e arrivano in scioltezza in semifinale. L’avversario di turno è l’Argentina di Maradona. Anche in questa partita l’Italia domina trovando il gol con il solito Schillaci e sprecando diverse occasioni. A pochi minuti dalla fine la beffa: Caniggia colpisce di testa cogliendo Zenga impreparato e trovando il gol del pareggio. Il resto della storia è stra-noto e vede gli azzurri sconfitti ai rigori. In finale poi il grande deluso, insieme ai suoi compagni, sarà proprio Caniggia.
Nei due anni successivi Claudio è ancora protagonista con la maglia dell’Atalanta con la quale colleziona un totale di 84 partite e 22 gol. «Giocare a Bergamo, per tutti, era molto difficile. In quegli anni l’Atalanta era una bella squadra, veramente. Ricordo una Dea terza in classifica. Purtroppo avevamo poca panchina e con gli infortuni spesso andavamo in difficoltà nel girone di ritorno, ma giocavamo bene ed era durissima per tutti affrontarci. Credo che sarebbe bastato un pizzico di fortuna e qualche alternativa in più per fare il grande salto. Peccato»
Le ottime stagioni di Bergamo fanno finire Caniggia nel taccuino di grandi e titolatissimi club stranieri come Real Madrid, Barcellona e Marsiglia. Sceglie però di rimanere in Italia, trasferendosi nel 1992 nella Roma. E’ la sua grande occasione, l’occasione per spiccare il definitivo salto di qualità. L’avventura nella capitale ha però risvolti drammatici per Caniggia, nonostante un buon inizio del campionato 1992-93 con 15 presenze e 4 reti. La giustizia sportiva è in agguato e aleggia sulla sua zazzera bionda: al termine dell’incontro Roma-Napoli del 21 marzo 1993 vengono trovate nelle urine di Caniggia tracce di cocaina. Dopo un mese di inchieste la Commissione Disciplinare della Lega lo condanna a 13 mesi di squalifica, comminando alla società giallorossa anche un’ammenda di 100 milioni per responsabilità indiretta.
Dopo l’anno forzatamente sabbatico, l’argentino si trasferisce nel 1994 al Benfica cercando di rispondere a chi lo accusa di essere ormai un giocatore finito. E Caniggia riesce nel suo obiettivo mettendosi in luce come uno degli attaccanti più talentuosi del campionato. Tuttavia, Caniggia già la stagione successiva lascia il Portogallo per andare a giocare con il suo amico Diego Maradona con la maglia del Boca juniors. In argentina rimane, tra varie vicissitudini, fino al 1999 quando ritorna inaspettatamente all’Atalanta in Serie B. Ma Il Caniggia-bis è lontano parente di quello di inizio anni novanta e ben presto l’avventura si conclude senza rimpianti da parte di nessuno.
«Il ricordo di Bergamo e della sua gente è sempre vivo. Bellissimo. E lo è pensando a tutto il periodo, da quando sono arrivato fino a quando sono andato via. Mi sono trovato bene con la società, con i compagni e con tutto l’ambiente. I tifosi sono spettacolari, credo di aver vissuto a Bergamo i migliori anni della mia carriera. Torno sempre molto volentieri da quelle parti anche se, dal punto di vista tecnico, non ho fatto una grande scelta quando decisi di tornare a vestire la maglia della Dea in serie B. Era il 1999, il campionato è molto diverso da quello di serie A ed è decisamente più difficile: non sono stato contento di giocare quel tipo di partite, è sempre stato più facile giocare in serie A. Sono tornato con grande gioia a Bergamo e per la gente lo rifarei ma sicuramente non per giocare tra i cadetti».
Nell’estate 2000 Ivano Bonetti annuncia Caniggia come nuovo acquisto del suo Dundee. La notizia viene accolta con molto scetticismo ma l’argentino va oltre ogni più rosea aspettativa. La sua annata è da grande campione e così Caniggia prima strappa un contratto con la squadra più prestigiosa del campionato scozzese, il Glasgow Rangers, e poi conquista addirittura la convocazione di Bielsa per i Mondiali 2002. Una cosa davvero eccezionale per un giocatore di 35 anni che solo due anni prima era dato da tutti come bollito.
L’esperienza nipponica però si rivela particolarmente sfortunata. L’Argentina esce al primo turno eliminata dalla Svezia e Caniggia, pur senza mai entrare in campo, riesce a farsi espellere per proteste, caso ancora oggi unico nella storia della massima competizione calcistica. Per fortuna si riscatta con il club di Glasgow, che trascina con 8 reti alla conquista del titolo e della qualificazione alla Champions League. E poi il buen retiro in Qatar.
Un finale troppo banale per chiudere la sua avventura? Infatti la storia non è affatto conclusa: nel 2012 Caniggia decide di tornare per l’ultima volta a calzare gli scarpini, accasandosi nei dilettanti inglesi del Wembley FC. Con lui altri quattro totem del calcio: Martin Keown, Ray Parlour e Brian McBride. Un poker d’assi dagli anni Novanta per non dimenticare gli anni d’oro di questo sport, fatto anche da quel pazzo argentino dal capello biondo che andava sempre di corsa. Lui, il Figlio del Vento.