Renzo De Vecchi, nato il 3 febbraio 1894, era un milanese di Porta Ticinese, anzi Porta Cicca come dicevano e dicono i veri meneghini. Suo padre Enrico era un appassionato di calcio, forse uno dei primi tifosi di quello strano sport in cui ventidue giovanotti in mutande correvano dietro ad una palla approssimativamente rotonda. De Vecchi senior spinse quindi il figlio a praticare il calcio e, rendendosi presto conto delle sue notevoli qualità tecniche, da tifoso milanista nel 1908 lo iscrisse alle giovanili del Milan, sobbarcandosi i non indifferenti costi necessari all’epoca per far parte di una società sportiva.
Nelle formazioni giovanili rossonere non tardò a mettersi in luce, seguito con occhio attento da Herbert Kilpin, fondatore e primo capitano della squadra. Si narra che proprio Kilpin, in una partitella di allenamento tra titolari e riserve si ritrovò ad affrontare ed essere letteralmente ridicolizzato dal piccolo Renzo tanto che, preso da frustrazione, lo “battezzò” con un calcio nel sedere che divenne il simbolo di un vero e proprio passaggio di consegne tra il vecchio capitano e il giovane talento. Già perché nel frattempo De Vecchi aveva già messo in mostra una eccelsa misura tecnica e soprattutto un eccezionale senso del tempo che consentiva a lui, non particolarmente dotato dal punto di vista fisico (era magro, asciutto, alto 1 metro e 64 centimetri e in forma pesava 65 chili), di giganteggiare anche nei confronti di atleti ben più strutturati. Queste qualità lo rendevano particolarmente adatto al ruolo di terzino, cioè colui che era incaricato di precludere agli attaccanti avversari la possibilità di arrivare al tiro. Tuttavia quello che è considerato l’esordio con la maglia del Milan avvenne nel gennaio 1909 nel ruolo di “half” sinistro in una partita della seconda squadra contro i pari grado dell’Internazionale vinta per 6-0. A centrocampo, dunque, non in difesa. Ma quando, a novembre dello stesso anno, esordì in prima squadra nella partita di campionato contro l’Ausonia Milano, lo fece nel suo ruolo naturale di terzino sinistro e da lì non si spostò più se non occasionalmente per tutto il resto della carriera.
Non ci volle molto prima che gli addetti ai lavori si accorgessero della presenza di una nuova brillante stella del firmamento calcistico. Ben presto sulla Gazzetta dello Sport scrissero di lui: “ … inimitabile bravura per la divina calma e la perfetta scelta di tempo negli interventi sulla palla e sugli avversari”. E proprio quell’aggettivo: divina introduce quello che diventerà l’appellativo principale che ancora oggi viene accostato alla figura di Renzo De Vecchi: il “Figlio di Dio”. Il fatto di possedere istintivamente la dote di saper scegliere il momento giusto per intervenire sull’avversario faceva apparire come veramente prodigiose alcune sue entrate dalle quali usciva come per miracolo palla al piede. Uno di questi episodi, avvenuto durante una partita giocata all’Arena Civica milanese fece trasalire Mario Bonfiglio, personaggio già nell’entourage del Milan e considerato un capo ultras ante-litteram; che esclamò: “Ueh, vardé cume el giuga la bala; chel-lì l’è propri el fioeu del Signur!”. La battuta venne colta da un giornalista presente all’incontro che non mancò di sfruttarla nei suoi articoli, naturalmente italianizzandola e facendola diventare in breve una sorta di secondo nome del giocatore milanese. La Commissione Tecnica incaricata di formare la Nazionale, composta da cinque personaggi del calcio milanese (tra cui Giannino Camperio del Milan), decise di convocare il giovane De Vecchi per la lunga (addirittura sfiancante: treno da Milano a Venezia, traghetto fino a Trieste allora austriaca, ancora treno via Vienna) e difficile (tecnicamente) trasferta a Budapest per la partita amichevole da giocarsi contro la fortissima Ungheria. La recalcitrante mamma del giocatore venne convinta a consentire la trasferta al figlio.
Lo stesso De Vecchi successivamente raccontò l’episodio: “Portavo ancora i calzoncini corti – disse – e la mamma mi accompagnò al treno per affidarmi personalmente ai dirigenti della Federazione”. L’Italia giocava in riva al Danubio la seconda gara della sua storia, in maglia bianca perché non era ancora stata adottata la maglia Blu Savoia (azzurra) e per di più senza i giocatori della Pro Vercelli campione squalificati per essersi rifiutati di giocare la finale del campionato 1910. I magiari, tecnicamente superiori, vinsero agevolmente 6-1 segnando due gol nel primo tempo e quattro nella ripresa. De Vecchi giocò il secondo tempo al posto dell’infortunato Cevenini I, esordendo in Nazionale a 16 anni, 3 mesi e 23 giorni, uno dei più precoci di sempre a livello mondiale. Come era costume allora, alla sera la squadra ospitante offrì un ricevimento agli avversari: tutti i giocatori per la cena indossarono lo smoking: tutti, meno De Vecchi che, per la giovane età, si presentò in giacchetta, camiciola e calzoncini corti. In quegli anni il calcio non dava da mangiare; pertanto De Vecchi trovò impiego in banca, alla Banca Commerciale Italiana.
Fino al 1914 rimase al Milan. Era un Milan decisamente in ribasso rispetto a quello che fino a pochi anni prima aveva contrastato le “grandi” vincendo tre titoli. Persi i ribelli confluiti nell’Inter, ritiratasi la generazione dei primi campioni erano rimasti solo De Vecchi e il cannoniere belga Van Hege. Inoltre ci furono dei dissidi tra il Figlio di Dio ed i dirigenti milanisti che resero non più sicura la permanenza di De Vecchi in rossonero. Non appena si ebbe sentore di questa possibile rottura ci fu l’interessamento di numerose società. La più agguerrita fu la storica rivale del Genoa che, attraverso il suo presidente Geo Davidson, stava lavorando per ricostruire una squadra degna di quella che aveva vinto 6 dei primi 7 campionati (l’altro fu conquistato proprio dal Milan). A De Vecchi arrivò una offerta strepitosa: si parla di 24.000 lire di un epoca in cui un operaio ne guadagnava meno di 100 al mese. L’unico scoglio da superare era ottenere il nulla osta federale per il trasferimento a società di città diverse veniva concesso solo per comprovate ragioni di lavoro e studio. Si arrivò all’escamotage di offrire a De Vecchi il trasferimento allo sportello della Banca Commerciale di Genova in cambio di un sostanzioso aumento di stipendio. Superato questo inghippo il calciatore De Vecchi smise il rossonero a strisce per indossare il rossoblu a quarti che portò per 14 stagioni.
Il campionato 1914-’15 non arrivò mai alla conclusione: venne interrotto alla vigilia dell’ultima giornata del girone finale Nord per via della mobilitazione generale precedente l’entrata in guerra dell’Italia. Ovviamente anche De Vecchi partecipò al conflitto: fu assegnato ai servizi di collegamento e trascorse la guerra percorrendo innumerevoli chilometri come passeggero di un sidecar. Conclusa la mattanza bellica il titolo venne assegnato, non senza polemiche, al Genoa, primo in classifica al momento dell’interruzione. Per De Vecchi fu il primo titolo a cui aggiunse anche quelli del 1923 e 1924. Il Genoa fu la prima formazione della storia ad indossare lo scudetto, il simbolo ormai universalmente riconosciuto che attesta la vittoria del campionato introdotto proprio al termine della stagione 1923-’24. Il Genoa lo sfoggiò per la prima volta il 28 settembre 1924 nell’amichevole di Marassi contro l’Alessandria. Per quanto riguarda la Nazionale la carriera del Nnostro fu meno eclatante: gli Azzurri (erano tali dal 1911) non avevano ancora raggiunto il livello dei principali avversari e rimediavano spesso eliminazioni precoci. Così, pur prendendo parte a tre edizioni dei Giochi Olimpici (allora l’unica manifestazione ufficiale per squadre nazionali) rimediò due eliminazioni alle semifinali di consolazione nel 1912 e nel 1920 ed una singola presenza all’esordio di Parigi 1924, avventura comunque conclusasi nel turno successivo.
In totale giocò 43 partite: malgrado un inizio da incubo con 8 sconfitte e due pareggi nelle prime dieci partite, chiuse la sua avventura in azzurro con un bilancio equilibrato: 15 vittorie, 15 sconfitte e 13 pareggi, ma senza la gioia del gol che, frequentemente, aveva allietato la sua carriera nei club. Smise con il calcio giocato nel 1929 (dopo 350 partite giocate e 47 reti segnate) diventando subito allenatore del Genova 1893 Circolo del Calcio (nuova denominazione del Genoa Cricket and Football Club adottata in ossequio alle normative del regime fascista che avevano in uggia i termini stranieri). Fu una stagione di grande novità anche per la nascita della serie A, torneo a girone unico con un lotto di partecipanti limitato e di buona qualità tecnica. De Vecchi con il suo Genova fu protagonista fino al termine, in lotta con l’Ambrosiana (la vecchia Inter …), per la conquista del titolo. E fu protagonista, suo malgrado, anche della drammatica partita di via Goldoni. Alla terzultima giornata il Genova secondo classificato andò a rendere visita all’Ambrosiana, prima con 4 punti di vantaggio. In pratica l’ultima occasione per i rossoblu di riavvicinare e magari raggiungere i nerazzurri. Il terreno ambrosiano era colmo in ogni ordine di posto. Prima della partita ci fu un’esibizione aerea. Il pubblico, per seguire le evoluzioni dei velivoli si agitò un po’ troppo e la tribuna centrale cedette di schianto. Ci furono numerosi feriti e la disputa della partita rimase in dubbio. Alla fine si giocò e anche sul campo ci furono momenti drammatici: a fine primo tempo il Genova era avanti 3-2 a pochi minuti dalla fine si era sul 3-3; al Genoa fu assegnato un calcio di rigore. Si incaricò del tiro dal dischetto Banchero che sbagliò, consegnando in pratica lo scudetto all’Ambrosiana.
Andò ad allenare il Rapallo in Terza Divisione (allora quinto livello del calcio nazionale, equivalente dell’attuale Eccellenza) e ci rimase fino al 1933. Fu richiamato sulla panchina dei Grifoni nel 1934 con la squadra caduta in Serie B. La condusse alla vittoria nel suo girone cadetto conquistando la promozione e, ciliegina sulla torta, vinse anche la Coppa del Presidente, sfida tra le vincenti dei due gironi in cui era strutturata la serie B Calcisticamente fu il suo canto del cigno. Si diede al giornalismo e per lunghi anni fu un apprezzato commentatore di vicende pallonare sulle principali riviste illustrate sportive. Morì a Milano il 14 maggio 1967. Riposa al cimitero di Vercurago, località affacciata sul Lago di Galate in provincia di Lecco.
Sergio Giovanelli