Marco Ciriello, giornalista e scrittore, nel suo apprezzato libro “Maradona è amico mio”, edito da 66thand2nd, in un passaggio parla di un personaggio molto amato dal fenomeno argentino. Ecco quanto si legge: “L’idolo di Maradona era Ricardo Enrique Bochini, un calciatore sulfureo, a vederlo non immaginavi che potesse contenere tanta capacità di essere punk con un pallone tra i piedi. Una faccia da contabile, una stempiatura profonda, eppure era diabolico. Non veloce, ma elegante. Non passionale, ma intelligente. Uno strano portatore di felicità calcistica. Usava l’esterno come massimo dell’impeto: mandando il pallone a cercare gli angoli delle porte con diagonali acutissime.
Quelli come Bochini sanno di essere una parentesi nelle grandi frasi sul pallone, e però, senza di loro, non ci sarebbero i Maradona. È quello che Bochini prova e sfiora che apre lo spazio immaginativo di Maradona, attraverso lo shock che crea si genera il salto. Per questo Diego gli sarà sempre riconoscente e nel migliore dei modi, regalandogli il titolo di campione del mondo, anche se in quel mundial, Messico ’86, giocheranno insieme solo pochi minuti, contro il Belgio.
Ma non importa. Lo squarcio che si apre quando Maradona vede giocare Bochini con l’Independiente – al punto di avere un trasporto emotivo per la squadra, sognando di giocarci per il solo fatto che c’è Bochini, con la sua capacità di dribblare e la sua classe ruspante, un gradino sotto Sivori, anche se come lui riesce a prendere certe strette curve fra i difensori -, quello squarcio di chiude il 25 giugno 1986 allo stadio Azteca di Città del Messico. Gli basta essergli coevo”.
Ed inoltre: “Detta oggi questa cosa suona strana, ma solo a chi non conosce il calcio argentino, Bochini a tratti sembra Mariolino Corso. E come lui riesce a imprimere al pallone delle traiettorie feline, muovendosi in una colonna sonora malinconica. Bochini oscilla con una vivacità contenuta, si porta in ogni tocco l’indolenza di chi vorrebbe essere altrove nonostante si stia divertendo, ma è la sua natura, nel distacco c’è la forza, nell’esitazione lo scarto. La vocazione serpigna, l’abilità che prevale sul fisico, l’individualista autorizzato a esserlo e con furore, il possessore del fascino ipnotico e il costruttore di parabole (pallonare), l’estraneo, il dittatore del gioco con la generosità – ma solo nel momento opportuno – , se si esclude il suo destro e il ritmo sobrio della sua falcata, in questa descrizione potrebbe esserci in nuce Maradona.
Senza Bochini e senza i suoi lanci in profondità o i suoi dribbling privi di preoccupazione, il piccolo Diego non avrebbe avuto il suo Salgari. Bochini gli apparecchia il campo. Gli mostra la triangolazione – di cui Maradona potrebbe tranquillamente fare a meno – con Bertoni, e come si dà un ordine al cosmo del centrocampo, fornendogli la prova concreta che il vero calciatore non ha bisogno se non marginalmente dei tatticismi, quelli appartengono alla coralità. Dove Maradona diverrà tigre, puma, anguilla, almeno secondo le testimonianze allegre di Villa Fiorito, Bochini è serpente almeno quanto Sívori era vipera (nella definizione di Edmondo Berselli). Ha meno insolenza e rabbia, e rispetto al Cabezón Sívori è molto più riguardoso nello sperpero di sé.
Ad accomunarli c’è il divertimento della discesa, il far correre il pallone indirizzandolo nel posto prescelto, che oggi sembra una banalità, ma allora non lo era affatto. Bochini è un lunatico dell’area di rigore, non sai mai come gli girerà né se avrà voglia di passartela, di sicuro c’è solo l’epopea mentre cerca il gol. Ed è quella che svezza Maradona”.