Il giorno in cui nacque Rivera, il 18 agosto del ’43, mentre il mondo era preso da tutt’altri affari, il tribunale di Alessandria condannava l’agricoltore Sisto Torti, di anni 30, per averlo trovato in possesso di circa 500 uova. Diceva di averle avute in parte da suo fratello Pasquale e in parte dalla sorella Amelia, o da altri amici e amiche, tali Anastasia, Maria, Violentina, le quali chiamate a testimoniare – evidentemente – gli fecero scoprire che avevano un’altra verità. Prese un mese e cinque giorni di reclusione, più 800 lire di multa. Ma – diamine – nasceva Gianni Rivera.
Uno di quegli adolescenti che oggi chiamerebbero un predestinato. Concetto bizzarro. Evoca un dono del cielo e poca fatica, quando invece nella parabola di uno sportivo e nella sua ascesa è altrettanto rilevante il libero arbitrio, la sua forza di volontà nell’alzarsi dal letto, mettere le scarpe e andare ad allenarsi, ogni mattina, tutti i santi giorni. Quando Rivera esordì in Serie A contro l’Inter, nel suo primo inconsapevole derby, Mario Zappa sulla Gazzetta dello Sport scrisse: “La nota interessante della giornata è stata data dalla partecipzione del minuscolo sedicenne Rivera, che apparve non soltanto ben sicuro del palleggio, ma anche dotato di un magnifico senso della manovra collettiva con servizi ai compagni e smarcamenti personali intelligentissimi. Promettente elemento, quindi, che auguriamo non venga sciupato con intempestivo e prematuro impiego”.
Eh no, oggi lo sappiamo. Non lo sciupò nessuno. Rivera è stato il nostro primo Pallone d’oro nel 1969 dopo aver perso quello del 1963 da Jascin, sebbene la bandierina dell’Italia si trovi nell’albo dei vincitori già qualche anno prima accanto al nome di Omar Sivori, erano tempi di oriundi. Rivera è stato unico, a testa china, assorto, la dolce nuca ersuta di sudore, come scrisse la poetessa Fernanda Romagnoli, e giocava un calcio in prosa, ma una prosa poetica, da elzeviro, come annotava Pier Paolo Pasolini, oppure era il numero 10 sulla cui testa puntò il dito qualcuno dal cielo per ordinargli di andare nel mondo a insegnare il giuoco del calcio – e questo invece è Diego Abatantuono.
A Oriana Fallaci che lo intervistava poco dopo la sua epifania, era il 1963, diceva: “Io quando gioco, non giovo per vanagloria, per vedermi citato sui giornali e via dicendo. Gioco perché è il mio mestiere e per la soddisfazione che mi nasce dentro: una specie di coscienza d’aver compiuto un dovere. Io, quando leggo sui giornali che non sono stato bravo, ho quasi vergogna ad uscire per strada, mi sembra che tutti ce l’abbiano con me. Quando leggo che ho giocato male, mi sembra di aver tradito qualcuno: il mestiere per cui vengo pagato. Mi ricordo tre anni fa, quando cascavo sempre per terra. Non avevo ancora diciassette anni, avevo giocato nell’Alessandria che stava per retrocedere e poi avevo giocato alle Olimpiadi: ero così stanco, così stanco, e cascavo per niente. Così i giornalisti scrivevano che ero un bluff, che ero buono soltanto da mettere in giardino, ed io soffrivo: ma non tanto per la figuraccia, per la coscienza di quel tradimento”. Rispose pure di aver visto Otto e mezzo. Ora immaginatevi un calciatore oggi che vada a vedere Otto e mezzo al cinema. Perciò gli si può perdonare che non gli sia piaciuto, “non mi è sembrato il capolavoro che dicono – confessò alla Fallaci – ma cosa c’è da capire in quel film? Io ci ho capito soltanto che prima di andare a vedere quel film uno deve leggersi la vita del signor Fellini; e la vita del signor Fellini non mi interessa per niente”.
Uno così, nella più alta polemica mai esistita nella storia del calcio italiano, ci stava da dio. Lui, l’abatino. Gli abatini per Gianni Brera erano degli sportivi fini, elegantini, se avevano gli occhiali è pure meglio, dovevano essere fragili e magri, dovevano ricordare gli studentelli, giacché un tempo la cultura era materia per monasteri. Un pretino, ecco. Il primo abatino di Brera era stato pima ancora di Rivera e perfino prima di Livio Berruti, oro nei 200 metri ai Giochi di Roma, il ciclista Giorgio Albani, che nella prima tappa del Giro d’Italia del 1952 aveva vinto la tappa battendo in volata Magni e Coppi. Prese la maglia rosa e aveva gli occhiali, giovane, secchetto, l’antenato di Rivera. Hanno duellato per una vita intera. Brera ricordava di “averlo veduto esordire da centravanti nell’Alessandria e ho subito scritto che centravanti non era. Viani e Rocco impiegarono Rivera come ala destra nell’Olimpica. Lo stesso autunno ’60, Rivera venne al Milan e Viani prese a chiamarlo il golden boy. L’anno seguente arrivò al Milan anche Nereo Rocco e subito fece il verso a Viani per irridere al golden boy. Il quale non faceva l’interno come lui avrebbe voluto e perciò se ne lagnava. Anche per questo io caldeggiavo il suo impiego da ala destra. Giovannino Rivera si rifiutò sempre di accogliere questa soluzione. Il motivo era semplice: vigendo la marcatura a uomo, rischiava di non toccare mai palla”.
Brera scrisse che Rivera non era un centravanti, gli diede del prete mandrogno, trovandogli lacune notevoli, ma riguardavano il dinamismo e l’aspetto difensivo del gioco di interno. “Non arrivo a vedere – scrisse negli anni Ottanta, a freddo – su quali metri giocherebbe e verrebbe valutato oggi Rivera Giovanni: però mi farebbe piacere tornare giovane con lui”. Come a noi tutti piacerebbe ancora avere un dibattito alto così.
Angelo Carotenuto