Trentatré anni fa, l’illuminazione. Era il 1990 quando Anconetani fece arrivare a Pisa dal Velez un giovanissimo Cholo Simeone, e Mircea Lucescu appena lo maneggiò capì subito: “Aveva 20 anni – ricorda il romeno, oggi tecnico della Dinamo Kiev – e tecnicamente non era un fenomeno, giocava solo di piatto. Però sapeva analizzare in maniera eccellente le partite e compensava i piedi con l’intelligenza, copriva benissimo il campo e dava indicazioni a quelli più grandi di lui. E lì mi dissi: questo diventerà un signor allenatore”.
La sua esperienza in Toscana dura due stagioni, periodo in cui il centrocampista gioca 34 incontri in Serie A (stagione 1990-’91) e 24 in Serie B (1991-’92), realizzando complessivamente 6 gol.
Come allenatore, Simeone ha portato al vertice la filosofia di chi sa di essere inferiore, ma che attraverso il cuore e il cervello riesce a dimostrarsi superiore ai migliori. Si tratta del cholismo, che Andrea Schianchi ha ben descritto alcuni anni fa in un bell’articolo su “La Gazzetta dello Sport”.
Più che un’idea di calcio il cholismo è uno stile di vita. Se non si parte da questo assunto, non si possono capire le radici e i risultati di un fenomeno che sta conquistando l’Europa. Giocare (e vincere) come fa l’Atletico Madrid significa, innanzitutto, conoscere i propri limiti, sapere che gli avversari sono tecnicamente superiori, accettare questa realtà e, anziché lamentarsene e fare i piagnoni, reagire con carattere e metodo. Questi princìpi stanno alla base del castello che Diego Simeone, con tanta pazienza, ha saputo costruire. L’obiettivo non è lo spettacolo, nel senso del gioco armonioso, brillante e bello da vedere, ma la vittoria. Conta soltanto il risultato, il “come” poco importa. Lo scopo è buttare il pallone in rete e fare di tutto affinché la cosa non riesca agli avversari. Se per l’impresa serve il catenaccio, catenaccio sia. Se bisogna pressare o contrastare rudemente il nemico, si pressi e si commettano falli a centrocampo. Tutto pur di arrivare al traguardo.
In questo modo di interpretare il calcio c’è qualcosa (molto) di italiano. E non è un caso che Simeone, ottimo mediano quando giocava, ma non certo un fine dicitore, sia andato a lezione di tattica dagli allenatori di casa nostra. Tanto per fare un esempio, l’Inter di Gigi Simoni (stagione 1997-’98), quella del primo immenso e imprendibile Ronaldo, nella quale Simeone stantuffava e pressava come un dannato, è un’icona di quello stile di calcio: mordi e fuggi, difesa e contropiede.
Poi, se hai Ronaldo anche il contropiede diventa spettacolare, perché non ci si deve mai dimenticare che i calciatori vengono prima di qualsiasi schema e di qualsiasi tattica. Figlio di questi insegnamenti, il Cholo non ha fatto altro che aggiungervi una dose ancora maggiore di grinta, e ha preteso una feroce attenzione in fase difensiva. Ne è nato l’Atletico Madrid, risposta non solo calcistica ma addirittura filosofica al guardiolismo e al tiqui taca che ha imperato nell’ultimo quinquennio. Se i cultori del possesso palla vogliono sempre comandare l’azione, lui, Simeone, l’attrezzo lo lascia volentieri al nemico e si prepara a contrastarne gli attacchi. Questo metodo aggiunge forza, ma toglie bellezza e fantasia al calcio, su questo non c’è dubbio.
Tuttavia il cholismo ha portato uno scudetto, una Coppa del Re, una Supercoppa di Spagna, due Supercoppe europee, due Europa League e due finali di Champions (perse contro il Real Madrid ai supplementari e ai rigori). Mica poco per chi non ha Messi o Cristiano Ronaldo. Sarebbe interessante, semmai, vedere che cosa Simeone farebbe se gli consegnassero la Pulce o CR7: insisterebbe con il cholismo o si trasformerebbe in spregiudicato offensivista? Si diceva: squadra molto italiana, questo Atletico. Italiana in un senso antico, però, quando noi eravamo i catenacciari, quelli che vincevano i mondiali aggrappandosi e strappando le magliette dei campioni avversari (Gentile con Maradona e Zico nell’82) o eleggevano a totem due stopper come Materazzi e Cannavaro (nel 2006).
Di quello stile di calcio, non bello ma emozionante, siamo stati per decenni i depositari assoluti. Si parte con i “poveretti” di Nereo Rocco che, prima con la Triestina e poi con il Padova, pensava soprattutto a non prenderle e, per farlo, s’inventava il “battitore libero”, si passa per la Grande Inter di Helenio Herrera che va alla conquista dell’Europa e del mondo basandosi sulla forza della difesa, e si arriva alla Juventus di Trapattoni che, guarda caso, fornì a Bearzot lo zoccolo duro della Nazionale mundial. È la vittoria dei piccoli contro i grandi, è il Brutto Anatroccolo che, alla fine della fiaba, diventa un Cigno. E tutti se ne innamorano perché in lui, nel suo successo fatto di sudore e di fatica più che di pura bellezza, tutti si rivedono. L’Atletico Madrid e Simeone lanciano un messaggio: esiste una possibilità per ognuno di noi, basta crederci e lottare per conquistare la gloria. Il cholismo, che poi è anche il “ranierismo” pensando al Leicester che ha dominato in Inghilterra, o addirittura il “castorismo” se ricordiamo il Carpi aggrappato con i denti alla Serie A, è una risposta rivoluzionaria: non sempre vincono i migliori. Per fortuna.