La palla è posizionata a un paio di metri dalla lunetta dell’area di rigore, in uno spicchio di campo lievemente decentrato sulla sinistra, guardando la porta. È il 12 settembre 1982, il ventiduesimo minuto del primo tempo, e si sta disputando la prima giornata del campionato di calcio di serie A, due mesi e un giorno dopo la epica vittoria nel Mondiale di Spagna degli Azzurri guidati da Enzo Bearzot, quelli dell’urlo di Marco Tardelli dopo il gol nella finale contro la Germania Ovest.
Il terreno di gioco dove si svolgono i fatti è il Bentegodi di Verona: la squadra di casa sta affrontando l’Inter, che si è portata in vantaggio, appena tre minuti prima, grazie a un gol di rapina di “Spillo” Altobelli. Sulla sfera c’è Salvatore Bagni, giovane mastino di centrocampo arrivato l’anno prima da Perugia. Si appresta a battere un calcio di punizione a due, destinato al probabile tiro di uno dei due fantasisti della squadra, che tenteranno di finalizzare in gol la succulenta opportunità.
Chi sono i due fantasisti in questione? Uno è Evaristo Beccalossi, ventiseienne tutto dribbling e assist e con un sinistro da artista, tanto estroso quanto discontinuo nel rendimento, così discontinuo da non essere nemmeno convocato in Nazionale per la spedizione spagnola.
Bresciano soprannominato “Dribblossi” da Gianni Brera, è un autentico beniamino dei tifosi nerazzurri (“Evaristo, sei meglio di Cristo”, era uno striscione sempre presente in curva), il classico giocatore genio e sregolatezza, che dispensa classe ma fa sgobbare i mediani perché per lui correre dietro agli avversari sarebbe un atteggiamento volgare. Un tipo di giocatore che, nella storia dell’Inter, è quasi una figura archetipa: basti pensare, in anni più recenti, ad Alvaro Recoba.
L’altro invece è appena arrivato in squadra, è un tedesco dall’aspetto un po’ atipico, che di quel celeberrimo Italia-Germania ha giocato giusto uno scampolo di venti minuti, a risultato già ampiamente a nostro favore: si chiama Hans-Peter Müller detto “Hansi”, ha un anno in meno del “Becca” e arriva da un paesino fuori Stoccarda, Kerb.
Nella squadra della città sul fiume Neckar gioca per sette stagioni, incantando a suon di tecnica e gol. Niente chioma bionda, mullet o baffoni da iconografia teutonica anni ’70, per lui. Fisico smilzo, capelli corti neri, viso pulito e occhi sornioni sotto un paio di sopracciglia in stile Elio delle Storie Tese, ha un’aria da damerino e porta in giro un’espressione a metà tra l’ironico e il baüscia, la parola che in dialetto milanese designa quei personaggi sbruffoni e sopra le righe, dall’aria fighetta e che vogliono sempre dire la loro su qualunque argomento, meglio se non avendone titolo.
Guarda caso, baüscia è anche il modo in cui vengono soprannominati i tradizionalmente spocchiosi e un po’ snob tifosi interisti (in contrasto con i casciavit, quelli del Milan, che hanno estrazione più popolare e operaia, almeno fino all’era Berlusconi – ma questa è un’altra storia). Tutto perfetto, si direbbe: cosa c’è di meglio di un baüscia tedesco, in una squadra come l’Inter?
Solo che c’è un problema. Fondamentalmente, Beccalossi e Müller sono lo stesso giocatore. Fuoriclasse sopraffini, entrambi hanno un sinistro fatato e un’attitudine da fantasisti dediti a creare poesia pallonara, più che a ingaggiare rudi battaglie a suon di spallate coi difensori. I due, insomma, si pestano i piedi, giocano nella stessa porzione di campo, l’uno eclissa la fantasia, il carisma e l’autorità dell’altro. Come potranno convivere insieme?, si domandano curiosi gli osservatori e preoccupati i tifosi.
Quella che vogliamo raccontare è la breve parabola di un fuoriclasse giunto in Italia accompagnato da grandi aspettative, ma che nel Belpaese ha avuto scarsa fortuna, per acciacchi fisici più che per demeriti suoi, e che è ricordato come il “tedesco triste” dell’Inter, soprattutto se confrontato con gli amatissimi (e vincenti) Rummenigge, Matthäus, Brehme e Klinsmann, molto più che per i gol e le giocate.
Quando Hansi Müller arriva a Milano nel 1982, le perplessità sono fin dall’inizio maggiori degli urrà di giubilo. Certo, stampa e osservatori sono concordi nell’apprezzarne tecnica e visione di gioco: i numeri sono quelli tipici di chi, come si suol dire, dà del tu al pallone. Però, oltre ai dubbi tattici legati alla convivenza con Beccalossi, ci sono due punti non da poco, soprattutto per una piazza rognosa come quella del tifo interista.
Innanzitutto il fantasista dello Stoccarda viene scelto solo dopo che, all’ultimo minuto, la Juventus ha letteralmente “soffiato” ai nerazzurri Michel Platini, con cui la dirigenza meneghina aveva già l’accordo in tasca: questa sensazione di rimpiazzo last minute non è certo il migliore dei biglietti da visita, per scaldare i cuori degli ultrà. E poi c’è quel ginocchio destro, più delicato di un cristallo di Boemia, che tiene in apprensione un po’ tutti e che, in effetti, si rivelerà, per entrambe le stagioni di permanenza del giocatore a Milano, una vera spina nel fianco, per il trequartista proveniente dal Baden-Württemberg
La convivenza tra i due solisti dell’orchestra nerazzurra, in effetti, non si rivela niente affatto facile. Solo in campo, però. Perché fuori i due ragazzi sono molto amici, e il rapporto rimane ottimo anche una volta terminate le rispettive carriere, come ci conferma lo stesso Evaristo Beccalossi:
“È verissimo, in campo ci pestavamo i piedi e la sua presenza mi costringeva a giocare venti metri più avanti, in una zona dove non mi sentivo a mio agio. Devo essere sincero, io soffrivo la sua personalità e, sportivamente parlando, lo odiavo. Ma Hansi è sempre stato un ragazzo eccezionale, tra di noi ce la intendevamo alla grande. Lo stimavo tantissimo, prima di tutto perché era un grande giocatore, e poi perché, dopo l’allenamento, si sottoponeva a lunghissime sessioni con lo staff medico per quel maledetto ginocchio che gli dava dolore. Aveva una pazienza e una resistenza che io non avrei mai avuto: io ancora oggi ringrazio Oriali e Bagni che correvano al posto mio in campo, figurati! Purtroppo divenne celebre una mia frase, in cui dicevo che giocare con Hansi Müller è peggio che giocare con una sedia, perché almeno la sedia ti rimanda indietro il pallone. L’avevo detto perché in una partita, non mi ricordo nemmeno più contro chi, gli avevo regalato qualcosa come dieci palle-gol e lui era riuscito a sbagliarle tutte. Fu un errore mio, dire così, perché adesso sembra che ci detestassimo, ma lui non mi tenne mai il muso, tant’è che siamo ancora in contatto. L’ultima volta ci siamo visti in occasione della partita Germania-Italia, ai Campionati Europei del 2016”.
L’Inter in cui Müller si ritrova a giocare, in ogni caso, non è affatto una cattiva squadra. Lo scudetto manca da due stagioni, ma la compagine guidata dall’esperto e mite Rino Marchesi può fregiarsi di cinque neocampioni del mondo (Bordon, vice di Dino Zoff tra i pali, il giovane terzino Beppe Bergomi e i rodati centrocampisti Oriali e Marini, nonché il goleador Altobelli) oltre che della classe di Beccalossi e dell’agonismo di Bagni, ed è sicuramente una delle pretendenti al titolo, che è difeso da una Juventus che ha nel già citato Platini e nell’estroso polacco Zbigniew Boniek i suoi due assi nella manica. È un campionato italiano che sta per vivere i suoi anni d’oro, quelli dei grandi campioni che arriveranno (Maradona, Zico e più tardi Van Basten e Gullit, nel Milan di Arrigo Sacchi) e quelli che già ci sono, come il brasiliano Falcao, senza dimenticare giovani assi nostrani come Vialli, Nicolino Berti e Mancini. Il campionato che vedrà avverarsi miracoli sportivi come gli scudetti del Verona, nel 1984-85, del Napoli e della Sampdoria.
La Milano del 1982, invece, è una città effervescente e
contraddittoria, che fa da teatro ad acute tensioni sociali che si
esprimono in modo clamoroso in “bande” giovanili in conflitto tra di
loro, con la falce dell’eroina a fare da denominatore comune. È il
periodo in cui case occupate e centri sociali sono animati da punk e
darkettoni che esprimono il loro disagio verso una città che, in
superficie, sta diventando la famigerata “Milano da bere”. Dietro lo
scintillio della moda e dell’arricchimento facile degli yuppies che
studiano economia alla Bocconi, dietro le sfilate di Armani e Versace,
dietro il negozio di Fiorucci in piazza San Babila che diventa una
specie di Factory alla Andy Warhol, ci sono gli ultras nerazzurri
neofascisti, in parte naziskin e in parte paninari, con i loro raid
punitivi del sabato pomeriggio contro chiunque si aggiri per la Fiera di
Senigallia con una cresta colorata o i capelli cotonati.
C’è soprattutto lo sradicamento del tessuto sociale solidale a favore
dell’edonismo e dell’individualismo, tutto ciò che, in nome
dell’accumulo materialista, porterà al deserto umano e al qualunquismo
che segneranno in negativo un decennio per molti altri versi invece
decisamente più interessante, con riverberi a cascata anche negli anni
successivi.
In tutto questo, Hansi si cala nella realtà del calcio italiano in quel modo che non saprei come definire altrimenti se non laico, e che spesso ha caratterizzato i tedeschi che hanno militato nel nostro campionato. Grande professionalità durante gli allenamenti e in partita, applicazione e impegno si uniscono alla consapevolezza che, dopo il 90′, ci sono una vita da vivere e una gioventù da godersi al di fuori degli stadi, staccando la spina e lasciandosi scivolare addosso critiche, pettegolezzi e mugugni. Al netto, questo va sottolineato, di un mondo del calcio decisamente diverso da quello attuale sotto ogni punto di vista, in primis per quanto riguarda la pressione mediatica e social.
Appartenente a una ricca famiglia borghese di Stoccarda, Müller è un ragazzo intelligente e bravo a scuola, che finisce il liceo e nel frattempo compie la classica trafila tra le squadre giovanili della sua città. Nel giro di un mese dal suo arrivo in Italia si fa già capire nella nostra lingua, dopo due mesi non sbaglia più un congiuntivo e dopo un anno conosce anche diverse espressioni in dialetto milanese. Di sicuro non vuole perdere l’occasione di godersi la vita nel nostro Paese.
Ancora Beccalossi: “Gli è sempre piaciuto conoscere i posti giusti da frequentare. Non parliamo tanto di discoteche, quanto di locali dove mangiare bene. Quando si passeggiava per Milano, io ero sempre in ballo a chiacchierare con i tifosi che mi fermavano per strada, e non avevo chissà quali pretese. Lui invece trovava il posticino selezionato dove gustare piatti ricercati. Anche quando eravamo in trasferta, spesso ci si fermava, dopo la partita, in ristoranti buonissimi che aveva scovato lui non si sa come”.
Non solo buona tavola, però, perché Hansi è, in tempi in cui il lettore CD faceva il suo timido ingresso nelle case degli italiani, un grande amante della tecnologia.
“Abitava ad Appiano Gentile, vicino al nostro impianto sportivo della Pinetina” ricorda il “Becca” e mi invitava spesso a casa sua. Anche questo ti fa capire quanto fossimo legati. La prima volta che mi sono presentato da lui, appena varcata la soglia, bum!, parte Thriller di Michael Jackson, sparata a tutto volume da un impianto fantascientifico che si sentiva in tutta la casa. Glielo invidiavamo tutti”.
L’amore per la musica evidentemente non doveva essere una passione effimera. La storia della discografia mondiale non lo considererà forse una pietra miliare, ma nel 1982 il nostro si tolse anche lo sfizio di incidere un 45 giri, “Calcio di rigore” (lato B: “Mare d’estate”), nientemeno che insieme all’orchestra di Raul Casadei. Un tedesco che canta in italiano insieme al Re del Liscio romagnolo, serve altro?
In tempi in cui il profilo pubblico di un calciatore, poi, non era certo paragonabile a quello delle star di oggi, attente all’immagine e coccolate dagli stilisti, il buon Müller fu un precursore: da curioso frequentatore della capitale italiana della moda, Hansi divenne una sorta di icona metrosexual alla David Beckham ante litteram, e sfilò persino in passerella per Giorgio Armani.
“L’aspetto personale era una sua fissa: se tu avessi spiato nel mio armadietto negli spogliatoi, ci avresti trovato giusto lo shampoo a tre colori che compravo alla Standa. In quello di Hansi, invece, c’era tutta una sfilza di creme, pomate, balsami. Addirittura, prima di entrare in campo non mancava mai di spruzzarsi dell’acqua di colonia, ci teneva tantissimo!”, sogghigna Beccalossi.
Sul terreno di gioco, però, le cose non andavano proprio lisce. Rimane celebre un Inter-Avellino in cui Müller non passò la palla ad Altobelli, liberissimo e in posizione perfetta per fare gol. Si spiegò dicendo che non l’aveva fatto apposta, ma si beccò uno schiaffone in faccia dal centravanti davanti a tutto lo stadio: altri tempi, ma, anche in questo caso, nessun rancore ed episodio chiuso alla fine della partita. Proprio “Spillo”, insieme a Oriali e Müller era un accanito giocatore di carte, e toccava spesso a Beccalossi fare il quarto: “Ma non mi piaceva per niente giocare, solo che venivo costretto e passavamo serate intere così”.
L’anno dopo, il nuovo mister nerazzurro, Gigi Radice, si inventò una posizione in campo diversa per il tedesco, spostandolo all’ala destra nel tentativo di migliorare l’intesa con Beccalossi. L’idea sembrava buona, ma dopo qualche segnale incoraggiante, nemmeno il cambio di ruolo ottenne i risultati sperati, mentre in compenso il ginocchio seguitava a scricchiolare. L’avventura interista, mai davvero decollata, si avviava così verso una fine in sordina, giusto in tempo per mancare di qualche mese la sliding door, ovvero la possibilità di giocare insieme a “Kalle” Rummenigge, fortissimo e altrettanto sfortunato attaccante scelto dall’Inter per l’annata successiva come nuova macchina da gol.
A partire dalla stagione 1984-’85, così, Hansi si sposta di qualche decina di chilometri e va a giocare a Como, in una piazza storica del calcio italiano, che stava vivendo, proprio in quegli anni, le sue ultime stagioni di gloria nella massima serie. Anche sulle rive del Lario, Müller lascia un bel ricordo di sé, di nuovo quasi esclusivamente dal punto di vista umano. La passione per la musica lo fa diventare dj, e arriva a condurre una trasmissione settimanale su una radio locale, cosa che gli darà modo anche di imparare le sfumature del dialetto comasco. Nemmeno nella città della seta, però, lascia sul campo un segno indelebile: dopo una stagione falcidiata dagli infortuni e infiocchettata da una vittoria per 2-0 a San Siro contro il Milan, infatti, alla soglia dei trent’anni Müller cambia aria e lascia l’Italia, andando a chiudere la carriera nel meno agonistico campionato austriaco, a Innsbruck, in una squadra che, con beffarda ironia, considerate le sue tribolazioni con il ginocchio, appartiene alla celebre cristalleria Swarowski.
Dopo il ritiro dal calcio giocato, nel 1990, e alcune tristi vicissitudini familiari, tra cui la perdita, nel 2005, della moglie Claudia in seguito a una malattia, Müller torna a Stoccarda, entrando a far parte dell’organigramma societario della squadra locale, una delle più importanti della Bundesliga. Non si fa mancare nemmeno una piccola avventura politica, risultando eletto, nel 2014, come consigliere comunale per la CDU nella circoscrizione del suo paese natale, Kreb. Oggi, oltre a continuare a svolgere ruoli di pubbliche relazioni nello Stoccarda, Müller è un apprezzato consulente motivazionale e psicologico, attraverso un ciclo di incontri multilingue chiamato “La via del successo”.
Già, ma quel famoso calcio di punizione contro il Verona, poi, com’è andato a finire? Inutile dire che quello è il gesto tecnico con cui è più bello ricordarsi di Hansi Müller. Le tremolanti immagini che si trovano in Rete, risalenti a un “90′ minuto” d’epoca, tralasciano, nel titubante commento di un inamidato Ferruccio Gard, l’antefatto, costituito dai due primi violini nerazzurri che battibeccano su chi debba scoccare il tiro. Lasciamo allora che sia ancora Evaristo Beccalossi a raccontarlo: “Non riuscivamo a decidere chi dovesse battere, finché all’improvviso Hansi mi sposta da parte e mi dice di ricevere il tocco di Bagni stoppandogli la palla. Al resto penserà lui”.
E in effetti così succede: Müller si inventa una traiettoria imprevedibile, né forte né tesa, ma calibratissima e morbida, calciando – da una posizione decisamente più adatta a un piede destro – con il sinistro e indirizzando la palla nell’angolo più lontano, a scavalcare il portiere (uno stupitissimo Garella, futuro numero uno del Napoli di Maradona) con una pennellata d’autore. Un gol bellissimo, quasi sublime, per la pulizia della traiettoria impressa alla palla e l’apparente facilità del gesto tecnico. Uno di quei gol che, visti in tivù, fanno sembrare che il portiere abbia fatto una figuraccia, ma che in realtà sono un autentico pezzo di bravura assoluta da parte di chi tira.
Una di quelle genialate che solo un campione incompleto, della genìa dei Recoba, dei Francescoli e dei Cantona, o un campione maledetto dagli infortuni come Yoann Gourcuff, poteva permettersi di inventare.
Incompiuto e maledetto dagli infortuni. I due segni particolari sulla carta d’identità calcistica di un tedesco atipico, che di nome fa Hansi Müller.
Manuel Lieta