In un calcio che in copertina ci finisce ogni giorno di più grazie all’esaltazione mediatica delle tre S, ovverosia social, sesso e soldi, una storia come quella che stiamo per raccontarvi può sembrare lontana molto più dei quarant’anni che sono trascorsi, e ancor più distante per la caratura morale del personaggio, che è stato sì un gran bel giocatore sul campo, ma che si è contraddistinto fuori da esso tanto da essere quasi un martire e un rivoluzionario del globo sportivo.
Alberto Tarantini nasce a Ezeiza nel dicembre del 1955, e trascorre la sua infanzia fra le strade dei difficili quartieri argentini e fra i morsi della fame che ogni tanto, terminate le partitelle nelle “villas” lo assalgono. Non va però a rubare quando cresce, perchè ha il papà poliziotto, e il cibo lo divide con i suoi sette fratelli, o meglio, quattro ormai… due hanno lasciato il mondo senza neanche aver compiuto due anni, e un terzo se n’è andato a dodici dopo le complicanze cardiache dovute a un intervento per correggere le orecchie a sventola. Anche Alberto le ha, quelle orecchie ariose, perchè la genetica è uno stigma potentissimo, ma suo papà si guarda bene dal compiere lo stesso tragico errore che non gli dà pace giorno e notte, e che lo porta a rifugiarsi solo nel lavoro e nell’andare a vedere suo figlio, che tutti chiamano El Conejo, per via di quelle orecchie e dei denti un po’sporgenti, giocare al fùtbol: pare che sia parecchio bravo.
Talmente bravo che nel 1973 viene acquistato dal Boca Juniors. Un giorno di due anni più tardi, però, ecco ripresentarsi un destino degno di Giobbe: Alberto rientra trionfante dalla vittoria con la nazionale giovanile del torneo di Tolone; a riprenderlo c’è suo papà pronto a complimentarsi col figlio. Mentre stanno dirigendosi a casa di un amico, el Viejo accusa un malore e si accascia: un infarto, troppo forte il dolore per la morte del figlio, anche a distanza di tutti quegli anni.
Allora Alberto, straziato ma fiero e desideroso di regalare al papà un ultimo saluto degno della persona che era, chiede i soldi al presidente del Boca per le esequie da affrontare e si sente rispondere che in cambio deve firmare una garanzia a restituzione del prestito.
Gli scaraventa letteralmente i soldi in faccia, chiede di leggere il suo contratto e lo strappa seduta stante: “ma come”, dice cercando di trattenere la rabbia e il dolore “mio padre è morto da poche ore e voi non avete altro da chiedermi che firmare una garanzia?”. Giura vendetta e nel frattempo però, gioca due anni senza contratto praticamente gratis, fino al 1977. Pur rimanendo senza squadra, El Flaco Menotti lo chiama sempre in nazionale, perchè stravede per lui, e perchè l’anno dopo ha da vincere un mondiale. Ed il coniglio non si tira certo indietro per la sua nazione, come gli aveva insegnato suo padre che l’aveva sempre servita. Ma quella è la nazione governata da un uomo, il baffuto Jorge Videla, che disprezza con tutto sè stesso.
L’albiceleste galoppa nel suo cammino fino in finale, seppur in modo più che sospetto, coi gol di Mario Kempes, con le splendide giocate dell’altro caudillo, Daniel Passarella, coi dribbling del loco Houseman e le sgroppate del conejo Tarantini.
Tutto questo mentre molti giovani dissidenti, con lo stesso carattere indomito e impavido di Alberto, mossi dalla sete di giustizia di chi voleva che in tutto il mondo si sapesse come i diritti umani venivano calpestati dal regime, sparivano letteralmente dalle strade della città.
Nonostante tutto questo, il 25 di giugno del 1978 Tarantini ha raggiunto sportivamente il suo traguardo, laureandosi campione del mondo a Buenos Aires contro l’Olanda, ed attende coi suoi compagni di essere premiato.
Un moto di rabbia, un brivido, e subito la reazione indomita del Conejo. Quando Videla sta per entrare negli spogliatoi a congratularsi coi suoi, dice al capitano Passarella: “scommettiamo che prima di stringergli la mano a quel figlio di puttana me la strofino ben bene fra i coglioni?“. Detto, fatto… Senza paura, “para ti, papi” deve aver pensato. Passato il momento di gloria, a maggior ragione dopo un affronto del genere, continua l’ostilità della federazione contro di lui, che è quindi costretto a trovarsi una squadra all’estero.
Non tarda a bussare il Barcellona, e ad Alberto la sistemazione piace anche. Ma ecco come al solito un’altra prova biblica per lui: i catalani hanno già tesserato due stranieri, il suo connazionale Maradona e il tedesco Schuster, perciò gli propongono, per acquisire la cittadinanza spagnola, di sposare una modella del posto. Chiunque, soprattutto ai giorni nostri, avrebbe accettato senza batter ciglio. Ma non lui, Alberto Tarantini, uomo di una integrità morale propria solo di anime pure e coraggiose. Sbatte un’altra porta e se ne va al Birmingham City, in Inghilterra, dove la sua scarsa attitudine al clima e alla disciplina difensiva lo fanno durare solo un campionato.
Ma c’è un altro Mundial alle porte, ed allora è disposto ad accettare l’offerta del modesto Talleres de Cordoba, in modo tale da eludere le clausole tagliaponti che il Boca aveva fatto sottoscrivere a molti. Così, poco dopo, Tarantini tiene fede alla sua promessa vendicativa, e firma per gli acerrimi rivali del River Plate. Un altro mondiale da protagonista, e poi la sua odissea prosegue in Francia e in Svizzera, fin quando tutti quegli sforzi di sopportazione gli presentano il conto, e il riccioluto lottatore finisce al tappeto sotto i duri colpi inferti da un avversario subdolo: la cocaina.
Ma chi ha saldi principi si riprende dalle sbandate, e così oggi potete apprezzare la pacatezza e la sobrietà di questo uomo nelle vesti di commentatore tv. Uno che non ha mai aggirato gli ostacoli, uno capace di dire “sono grato alla vita per ciò che mi ha riservato”, uno che non è mai sceso a compromessi in cambio di nessuna delle tre S sovracitate, uno che forse servirebbe in questa epoca vacua. Un coniglio che, a dispetto della fama dell’animale, non ha mai saputo cosa fosse la paura.
Marco Murri