“Una squadra di calcio oggi non è più – né solo – una squadra di calcio, bisogna vederla come tempo libero di una città, è una cosa importante, di cultura” (1982)
“Non mi vergogno a sostenere che ho idee politiche a sinistra, tra il socialista e il comunista: e con ciò? Proprio per questo ho elaborato una visione del calcio e della società che non è più solo quella del training e della panchina” (1982)
“La Juve fa notizia non se vince ma se perde il campionato. E così ha il problema di vincere di più e in modo diverso, c’è la Coppa dei Campioni, c’è il campionato degli incassi” (1982)
“Brera è quel capo indiano che sappiamo, però col Mundial non ci ha preso. Con il gioco espresso dall’Italia non ci ha preso. Quando continua a menarla col gioco all’italiana, vende letteralmente l’aggettivo “italiano” in maniera impropria. Ormai ci si difende riattaccando con padronanza del pallone, non siamo più ai miei tempi, di giocatore, quando il succo era: meglio che la palla sua là, lontana, che qui, vicina. Questo lo si vede ogni domenica. Mi stupisco che Brera non lo noti, forse è un nostalgico” (1982)
“Se in Europa del nord si è vinto più che da noi è perché siamo nostalgici, e i giocatori non fanno gli operai specializzati come dovrebbero, in assenza di veri fuoriclasse. Appena posso, rimetto anch’io i due allenamenti giornalieri” (1979)
“Alla gente piace avere un giocoliere cui battere le mani se fa un colpo di tacco, ma per me anche l’essenzialità è un grosso spettacolo” (1981)
“Se il calcio non è anche una scuola di vita, non è niente” (1981)
“Falcao è stato un po’ troppo mitizzato. Ascolto il Processo in tv e sento dire che i giocatori della Roma sono tutti portati per mano da Falcao. Balle. Falcao è semplicemente uno come gli altri e semmai tra Falcao e Di Bartolomei io prendo il nostro” (1982)
“Ero riserva nel Milan e non vedevo l’ora di prendere il posto di quello svedese che viaggiava verso i quarant’anni. Ma quello svedese di ferro non si rompeva mai. Un giorno si fracassò la testa, io passai tutta la settimana sognando di rimpiazzarlo e la domenica lui giocò con la testa bendata e lo svedese aveva trentasei anni e io ventitré (1983).
“La città, quella proletaria e piemontese che tifa granata, in contrasto con la borghesia e gli immigrati in cerca di riscatto che scelgono da sempre la Juve, aspettava un segno, la conferma che era finito il tempo della sottomissione, del vittimismo, delle recriminazioni sterili. Penso che il mio arrivo abbia contribuito proprio al definitivo cambio della mentalità. Il mio Toro di allora aveva classe, i cross pennellati di Sala, il poeta, e i gol in acrobazia di Pulici o di forza di Graziani, gli eroi della curva Maratona, ma aveva innanzitutto il mio Toro del ’76 e del ’77 il piacere della lotta, era tenace, e questo è anche un po’ il mio carattere” (1984)
“Quando in una città ci sono due squadre, e una delle due è abituata a vincere tutto o quasi, esistono due campionati: uno è quello vero, l’altro, non meno sentito, è quello rapportato alla Juve”. (1984)
“Gli striscioni offensivi, di pura provocazione, non dovrebbero essere tollerati. Se lo sono, è colpa della società ospitante e della polizia, che non ritiene di intervenire in presenza di reato. Non criminalizziamo le curve: in Maratona ci vanno anche le mie figlie, è un fatto di aggregazione, può essere simpatico. Se si tratta di teppisti, intervengano le società, che li conoscono benissimo tutti, nome cognome e indirizzo” (1991)
“Che calcio è questo dove chi ha più soldi crede di poter permettersi tutto? Presidenti che solo per il fatto di spendere miliardi si prendono il diritto di fare gli allenatori” (1993)
Interviste rilasciate a Emanuela Audisio, Oliviero Beha, Gianni Minà e Gianni Mura per Repubblica