Il tempo è passato. Non saprei dire se in fretta o lentamente, però è passato. E io non ho mai smesso di essere orgoglioso di quel Mundial, di quella vittoria davanti alla nostra gente. Dite quello che volete. Ho giocato tre Mondiali, ma in Argentina fu un’altra cosa. Eravamo 25 milioni di persone contro tutto il mondo. Venticinque milioni di argentini che dipendevano da noi, che vivevano intorno a noi. Noi, una squadra. Un gruppo unito, merito di Menotti e di Rubén Pizzarroti, il preparatore atletico. Rubén sapeva come parlare per motivarci: le sue chiacchiere prima di ogni partita restano memorabili. Quando Menotti aggiungeva le sue, tutto diventava più facile. Non c’era un leader in quella squadra, e parlo di mostri come Passarella, Bertoni o Kempes, ma in campo nessuno si permetteva di porsi sopra gli altri.
Giocavamo a calcio, non facevamo politica. L’unico dolore è che la nostra storica conquista sia stata sporcata da chi ha messo la politica di mezzo, da chi ha usato la vittoria per tirare la Nazionale di qua e di là. Ci sono cose che abbiamo scoperto in ritardo. Adesso so che il Mundial fu strumentalizzato, ma la Coppa la vincemmo noi, non la vinse il potere. La vincemmo giocando a calcio, con una grande squadra e un gruppo di grandi uomini. Quell’Argentina era molto diversa dalle altre, era la squadra di un popolo, una Selección unica. Prendete la squadra del 1982: era la stessa del ’78 più il mostro più grande della storia del calcio, Maradona. Eppure uscimmo prima delle semifinali. Qualcosa vorrà dire. Il Mundial del ’78 è diventato un solco dentro il tempo di noi argentini. Misuriamo i nostri giorni con un prima e con un dopo, e questo succede con la storia.
Il mio primo pallone rotolava a San Miguel del Monte, la mia città, poco fuori Buenos Aires. Al campo mi portò Martillo Tolosa, il mio migliore amico, disse “Vieni che ti divertirai”. Eccome, se mi divertivo. A 13 anni ero già la riserva di Juan Barreiro, il portiere titolare della prima squadra. Non facevo che giocare a calcio. Renato Cesarini, l’italiano d’Argentina, quello della Juve e dei gol negli ultimi minuti, voleva accompagnarmi al River Plate per un provino. Gli dissi di no, che non me la sentivo, Cesarini non ci poteva credere che preferissi restare a San Miguel, a giocare due campionati contemporaneamente: nella quarta categoria giovanile facevo il portiere, le partite erano al sabato, e il giorno dopo giocavo da centrocampista con il numero 5 nella terza categoria.
Poi un giorno viaggiai quasi senza volerlo verso Buenos Aires con Pando, uno degli amici della mia banda. Lui aveva un provino prenotato per entrare nel Quilmes. Sto lì con lui quando si avvicina un tipo e dice che gli servono un numero 10 e un portiere. Tu sei portiere, fa Pando. Mi provano, mi prendono, al Quilmes finisco io. Per mantenermi lontano da casa lavoravo in una panetteria, il Quilmes mi passava i soldi per dormire in una pensione. Presi 6 gol dall’Huracàn il giorno dell’esordio, è cominciato tutto così, e quando sono diventato campione del mondo come portiere dell’Argentina, ma con il numero 5 dietro la maglia, ecco, mi pareva che tutto tornasse, che tutto fosse già stato scritto quando ero ancora un bambino.
Al Quilmes presi l’abitudine di bagnarmi sempre la maglia all’altezza del petto prima di andare in campo. Lo faceva Oscar Cavallero, il padre di Pablo. Si spargeva il petto di alcol etilico, questa cosa mi colpiva, aveva un grande fascino. Volli provare e non ho smesso mai. Un giorno, il portiere titolare delle giovanili, un certo Iglesias, non era al campo. Forse ammalato, non lo so, non lo ricordo. Io all’epoca giocavo un paio di categorie più in giù, mi chiesero in prestito per un giorno, per una partita d’allenamento. Non ci fu tempo neppure per far sapere quale fosse il mio nome, corsi in porta, non mi conosceva nessuno. A quel punto per chiedermi il pallone, i compagni cominciarono a chiamarmi con lo stesso soprannome che avevano dato a quell’Iglesias, passala Pato, dalla a me, mettila di là, lanciala lunga Pato, e Pato sono rimasto. Per sempre, fino alla fine.
Al Racing Avellaneda mi feci un nome come para rigori. Ne fermai sei in un campionato, ancora adesso è record in Argentina, così al River Plate ci sono finito lo stesso. Se voi credete al destino. Quando smisi con il River, era il 1983, dopo la delusione del Mundial di Spagna, pensai di lasciare pure il calcio.
Angelito Labruna, il mio papà futbolistico, si impuntò. Fai una scemenza, mi disse. Aveva ragione lui. C’era ancora tanto da divertirsi. Con l’Argentinos Juniors e poi in Brasile, con la maglia del Flamengo. I tifosi vennero a ricevermi in aeroporto, lì ho scoperto che essere un calciatore significa giocare Flamengo-Fluminense al Maracana davanti a 200mila spettatori. E poi la Spagna, con i colchoneros di Madrid. Di nuovo al Racing, al Velez. Non avrei smesso mai, sono andato avanti fino a 40 anni.
Certe volte le cose succedono senza che tu possa farci niente. Il mio debutto in Nazionale stava per essere bloccato dai sindacalisti della squadra. Ai Mondiali del ’74, l’ultima partita del girone della seconda fase, contro la Germania Democratica, per noi era ormai ininfluente. Cap, il commissario tecnico, decise di mandare in campo un po’ di riserve. Andò dal dodicesimo, Miguel Santoro, e gli comunicò che al posto di Daniel Carnevali sarebbe toccato a lui. Santoro si offese, non ne voleva sapere, gli pareva una concessione tardiva. Mise in campo l’orgoglio e rifiutò. Poi venne a bussare alla mia stanza, io in Germania ero stato convocato come terzo portiere, in sostanza una specie di viaggio premio. Bussò e mi disse che dovevo fare lo stesso, dovevo rifiutarmi di giocare. Roberto Perfumo dormiva con me. Per fortuna si mise di traverso. “Come puoi chiedere una cosa del genere al Pato”, gli rispose, lui ha solo 24 anni e giocare in Nazionale è il suo sogno. Fu una lunga trattativa, alla fine giocai.
Nel River Plate, durante un Superclásico
L’anno dopo arrivò Menotti, non sapeva su chi puntare per il Mundial che avremmo giocato in casa: me o Hugo Gatti. C’erano in programma due turnée in Europa, la sua idea era far giocare la prima a me e la seconda a Gatti. Gli dissi: “Ascoltami César, ma se nella prima turnée me la cavo bene, che bisogno c’è di cambiare? Perché non posso giocare anche la seconda?”. Menotti si infuriò. Disse: “Perché comando io, se non ti piace puoi anche andartene”. E me ne andai.
Da quel giorno giocavo per dimostrargli che si sbagliava, che il migliore ero io, non quello lì che metteva i maglioni colorati, le fasce nei capelli, sedeva sulla traversa e usciva fuori dall’area. Io me ne stavo sulla riga della porta, a difendere l’idea che la prudenza non sia un valore di cui si deve ridere. Ci sono i matti, e va bene, un posto al mondo non glielo voglio negare. Ma lasciate che ci sia un posto anche per noi, noi che non dobbiamo vergognarci di avere sempre avuto la testa sulle spalle.
Nell’ Atlético Madrid
Ho perso tre anni di Nazionale. A marzo del ’78 quando al Mundial mancava ormai poco, Menotti mi richiamò. Gatti si fece da parte. Disse che aveva dolori a un ginocchio. Qualcuno raccontò che si trattava della sua maniera di protestare contro la giunta dei militari. Scemenze. Videla c’era anche nel ’76, e nel ’76 Gatti al ginocchio non aveva nessun dolore. La verità è che non voleva farmi da riserva, aveva capito che sarebbe toccato a me, la panchina gli bruciava. Restò a guardare, peggio per lui. Io sono campione del mondo e lui no. Il mio ultimo sogno era giocare quattro Mondiali di fila. Ma Bilardo mi escluse. Bilardo non era Menotti. Nelle qualificazioni per il 1986, contro il Perù, feci la mia ultima grande parata per la Selección. Senza saperlo. Su Uribe. Se fosse entrato quel pallone, però questo devo dirlo, l’Argentina non sarebbe andata ai Mondiali. E i Mondiali Maradona non li avrebbe vinti mai.
(Le parole liberamente attribuite a Ubaldo Fillol sono state ricostruite da Angelo Carotenuto, attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti).