Dribbla con passo bailado De Maio e Bertolacci che non gli stanno dietro, oscilla sulla destra, si spinge veloce sul fondo dell’area genoana, sembra non avere spazio ragionevole per tirare ma lui è Carlos Tevez, quello che ci prova sempre, e colpisce di destro, con la consueta forza, il pallone si alza sotto la traversa e poi finisce in porta.
Perin non può opporsi, come a Dortmund non poteva Roman Weidenfeller. È un gol archetipo. Ogni volta che lo segna, Tevez, ti sembra di averlo già visto, e sarà anche così, e continuerà a segnarlo.
Dove vede uno spiraglio si infila, tirandosi dietro la forza del suo destino, e con essa l’individualismo che per brevità diremo sopravvivenza, che lo ha portato fuori dalla Fuerte Apache la villa 31 nascosta dal muro nel 1978 per il mondiale, che diventa Fuerte Apache, con la sua miseria coperta.
Si libera prima di un bollitore e della sua acqua che lo hanno tatuato per sempre: ustioni su faccia e collo; poi di una famiglia ingombrante: il padre viene ucciso in una sparatoria; infine dei tanti altri calciatori che sono caduti prima: come Dario Coronel detto Cabañas, l’altro Tevez.
A Fuerte Apache vi diranno: «Tevez è il calciatore più forte di Buenos Aires è solo uno dei migliori calciatori della villa 31». Riscrivendo l’assioma argentino che recita: «Maradona è il calciatore più forte del mondo ed è solo uno dei migliori calciatori argentini». Carlitos comincia palleggiando con le pietre, e quando arriva ai palloni nel Santa Clara non gli pare vero. Ogni volta che tira in porta sembra ancora che non senta la differenza tra pietra e cuoio. Si porterà dietro molte cose Tevez, nonostante la fuga riuscita, il suo stato di pigro dormiveglia che pare un coprifuoco prima di un assalto e, infatti, improvvisamente si accende e scatena, in una accelerazione infernale.
E l’irrequietezza di non voler rimanere sempre a un tocco dalla svolta, dalla consacrazione, nonostante infligga continue umiliazioni a difensori e portieri avversari, nonostante abbia girato molto, rispetto al casino fatto, ha vinto poco. È un Sivori con una assiduità maniacale, è un Messi con meno continuità e gol.
Ci sono settimane e stagioni che vengono decise da lui, e ci sono state altre che ha visto passare in panchina o vagando per il campo. Può essere indolente rispetto al gioco, insolente con gli allenatori (citofonare Mancini), e poi risolvere con il suo gol archetipo: dribbling in velocità e tiro dalla distanza imprendibile, a volte anche da fermo come a Dortmund, consegnando Klopp alla solitudine della notte tedesca.
Con lo scorrere delle partite e degli anni sembra voler ancora una volta sfuggire, quest’ultima rispetto a chi lo vede un campione mancato.
Ci sta provando, non lo aiuta il suo procuratore Kia Joorabchian capace di stendere ombre su ogni pallone che Carlitos tocca. Per ora, gli è riuscita la fuga. Rimane da scegliere dove parcheggiare la propria carriera: tra epopea o divagazione.
Marco Ciriello