Dopo quarantotto anni dall’inizio della massima manifestazione internazionale di calcio, la Coppa della Fifa sbarca all’aeroporto di Ezeiza, come ad un approdo naturale, immancabile nella terra che tanto ha dato di sé allo “spettacolo più grande del mondo”. Nel passato la federazione argentina aveva tentato più volte di ottenere l’organizzazione della Coppa del Mondo, ricevendo rifiuti a volte immotivati, a volte dipendenti dalle condizioni instabili del paese, da sempre invischiato nella lotta per il potere fra gerarchie militari, casta borghese e movimenti ad ideologia populista, sul punto di degenerare in guerra civile. La federazione argentina era stata investita dell’organizzazione della XI Coppa del mondo durante il Congresso della Fifa di Città del Messico e questa disposizione venne confermata in Germania in occasione del Mondiale tedesco.
I rivolgimenti politici interni avevano fatto temere l’impossibilità ad organizzare una manifestazione che richiedeva l’aiuto tangibile del governo per ammodernare gli stadi già esistenti, la costruzione dei nuovi e l’allestimento di strutture tali da poter permettere il perfetto funzionamento di una macchina che con l’andare del tempo ha assunto dimensioni sempre più gigantesche. Il “Caudillo” Peron era ritornato al potere nel 1973 dopo venti anni di esilio in Spagna e alla sua morte avvenuta nel luglio del ’74 era stata elevata al rango di presidente della Repubblica, la moglie Isabelita, reincarnazione della compianta Evita del primo periodo di potere del generale Peron.
Nel marzo del 1976 avvenne il colpo di stato che portava al governo del paese una giunta militare comandata dal generale Videla. Poco o nulla era stato fatto in previsione dell’impegno assunto con la Fifa, sulla stampa sportiva di tutto il mondo si rincorrevano gli interrogativi circa la nuova sede del Mondiale, dando per scontata l’incapacità dell’organismo argentino ad organizzare in breve tempo tutto quanto mancava.
Ma sotto l’impulso della “junta militar”, che conquistato il potere, s’era presa in carico l’impresa come un obbiettivo da raggiungere per rinforzare la popolarità, quel che non era stato fatto venne immediatamente messo in opera e tutta la nazione, come vincolata ad un impegno d’onore contribuì al successo della manifestazione così che si può tranquillamente scrivere che il “Mundial ‘78” non è stato il “Mundial di Videla” come si temeva prima dell’inizio, ma il “Mundial” di tutto un popolo che ha voluto dare al mondo la migliore immagine di sé.
La gigantesca organizzazione della Fifa ha reso possibile l’iscrizione alla Coppa del mondo 1978 di ben 106 federazioni calcistiche: un record. Ma un record che porta ad alcune considerazioni amare sul futuro della competizione. Con il sorgere delle giuste rivendicazioni dei paesi nuovi, non ha più senso organizzare i turni di qualificazione seguendo principi d’ordine geografico. Che senso ha il Messico alla sua settima Coppa del Mondo, mentre l’Inghilterra, la Jugoslavia, i campioni d’Europa della Cecoslovacchia sono costretti a restare a casa? Giuste le rivendicazioni dei paesi africani, ma perché non organizzare dei turni preliminari per cui alla fase finale del Mondiale accedano solamente rappresentative il cui livello tecnico sia di sicuro affidamento? È questo un problema di difficile soluzione, ma occorre rimediare prima che il titolo di Campione del mondo scada di significato, travolto nelle immancabili polemiche sull’effettiva validità di una conquista scaturita da una lotta fra valori tecnici ineguali. Delle 106 federazioni iscritte al Mondiale 1978, sono arrivate alla fase finale in Argentina 10 europee: Italia, Austria, Polonia, Scozia, Francia, Spagna, Svezia, Ungheria, Olanda e Germania Occidentale detentrice della “Fifa World Cup”. L’Argentina padrona di casa, Brasile e Perù, per il continente sudamericano, il Messico al solito presente per il Centro-America, la Tunisia per la zona africana e l’Iran uscito vincitore dal raggruppamento Asia-Oceania.
I sorteggi dei gironi della prima fase fanno intravedere grosse manovre politiche: Germania Occidentale e Olanda sono le vincenti del primo “round” che si gioca a Buenos Aires. Al primo girone accedono: Italia, Argentina, Francia e Ungheria; al secondo Polonia, Germania Occidentale, Tunisia e Messico; al terzo Austria, Spagna, Svezia e Brasile; al quarto Olanda, Iran, Perù e Scozia. Sulla carta sembra tutto molto facile per l’Olanda e la Scozia, la Germania e la Polonia, incertissimi invece gli altri gironi. Alle 14 e 30, ora di Buenos Aires, del 23 maggio sbarca all’aeroporto di Ezeiza la delegazione italiana. È la prima rappresentativa straniera ad arrivare in Argentina per il Mondiale e sarà seguita da tutte le altre fino al 30 maggio quando è il turno della Spagna che chiude la serie degli arrivi. Alle ore 15 del 1 giugno Germania Occidentale e Polonia dopo un lungo cerimoniale sono sul campo del River Plate e l’arbitro Coerezza dà il via alla XI Coppa del mondo. Gli occhi di un miliardo di spettatori sono attenti a quanto succede, sul rettangolo verde dello stadio argentino.
Nel continente sudamericano tre sono le potenze calcistiche di prima schiera: Brasile, Uruguay ed Argentina. Seguono Perù e Paraguay quasi sulla stesso livello poi la trafila di tutte le altre co mandata dal Cile. Questi dati di fatto, dipendenti dai risultati conseguiti nelle manifestazioni calcistiche continentali e mondiali, hanno subito diverse variazioni col passare dei decenni. Fino agli anni Trenta, difficile contestare la posizione di preminenza all’Uruguay, bicampione olimpico, campione del mondo e vincitore di sette edizioni del “Sudamericano” sulle tredici organizzate; l’Argentina seguiva a ruota, finalista di una olimpiade e della prima Coppa del mondo e vincitrice di quattro edizioni del “Sudamericano”. Il Brasile era allora il terzo incomodo. Il caos che regnava nell’ambito federale si rifletteva anche sui risultati e la “selecao” era riuscita solamente due volte nell’impresa di vincere il Campionato continentale. Dopo il 1935 (ultima vittoria dell’Uruguay con la generazione degli olimpionici e dei campioni del mondo) prende il sopravvento l’Argentina con una fioritura di grandissimi campioni e protrae il proprio dominio fino al 1947 (cinque vittorie nel “Sudamericano” su sette edizioni) e poi finalmente verrà Pelé a mettere le cose in vantaggio del Brasile. L’Argentina vincerà tre edizioni del campionato su quattro organizzate (1955–1957–1959), ma il Brasile centra la vittoria nella Coppa del mondo, ben più dispensatrice di prestigio di una manifestazione, limitata all’ambito continentale. Questo lungo preambolo per segnalare le frustrazioni e le attese di una tifoseria, che dal momento stesso in cui ha saputo che l’Argentina avrebbe avuto l’onere di organizzare la XI Coppa del mondo, ha immediatamente identificato nei vantaggi del fattore campo, l’elemento decisivo per poter conquistare un titolo prestigioso, che riscattasse anni e anni di umiliazioni e di sconfitte. Quindi la parola d’ordine diventava “l’Argentina deve vincere il Mundial”.
Con queste premesse non certo tranquillizzanti, viste le esigenze e la volubilità dell’opinione pubblica, Cesar Luis Menotti accettava l’incarico di Direttore tecnico della “Seleccion” verso la fine del 1974. Cesar Luis Menotti, detto “El Flaco, nato nel 1938, era stato centravanti del Rosario Central e nel 1960 aveva staccato il suo primo contratto di professionista. Goleador dal tiro potente, tecnicamente molto preparato, Menotti divenne ben presto un interno di regia e offrì i suoi servigi al Racing nel 1964 poi nel ’67 passò al Boca Juniors. Dopo una breve parentesi al General Nordamericano, passò sei mesi al fianco di Pelé nel Santos e poi nel 1970 abbandonò le scarpe bullonate di calciatore. Iniziò la carriera di tecnico come secondo di Antonio Juarez che allenava il Newell’s Old Boys di Rosario, passò quindi all’Huracan all’inizio del campionato 1971 e un paio d’anni dopo (1973) lo portava alla prestigiosa conquista del “Metropolitano”, unico titolo per la società nella lunga storia del calcio professionistico argentino. Nell’Huracan giocavano Brindisi, Carrascosa, Houseman e Larrosa che ritroveremo nella “Seleccion” in preparazione per il “Mundial”.
L’Afa (Asociacion Futbol Argentino) dopo l’esperimento con Omar Sivori, che finì per le violentissime polemiche sulla stampa dopo che il “cabezon” con la sua guida tecnica aveva assicurato all’Argentina la qualificazione per il Mondiale 1974, si rivolse a Ladislao Cap che stava svolgendo la sua attività di allenatore in Colombia. Anche Cap durò poco nell’incarico e per il mondiale del ’78 l’Afa si rivolse ad un uomo che riteneva glaciale, che accettava il colloquio con tutti ma restava legato ai suoi principi, che più che alimentare le polemiche le smorzava con una cortesia non solo apparente ma fondata nel carattere.
Solo Menotti poteva durare nell’incarico per il quadriennio che precedeva il “Mundial” senza raccogliere le violente polemiche che lo investivano ed in particolare per i risultati della squadra che non l’aiutavano certamente. In pratica la preparazione alla Coppa del mondo è durata per quattro anni e Menotti cominciò subito con dei rovesci piuttosto preoccupanti. Aveva annunciato il suo programma dichiarando che la sua Argentina avrebbe giocato a zona in difesa nel rispetto della tradizione, ma che per tutto il resto i giocatori a lui affidati avrebbero dovuto cambiare mentalità. Non più i numeri da foche ammaestrate, ma individualismo sacrificato al collettivo nel rispetto degli insegnamenti europei. Non più giocatori che reagiscono ai falli o che sputacchiano troppo facilmente sul viso degli avversari; questi sono gesti di debolezza e non di forza, nel “plantel” non ci saranno giocatori simili. Non più “caudillos”, uno per tutti e tutti per uno.
Sembrano le solite parole che in Europa muovono a più di un sorriso di compatimento, ma Menotti fu costretto ad interessarsi anche di queste cose per cambiare la mentalità di elementi che giocando al “furbo” si sentono più artisti che professionisti di una attività atletica. Nel luglio del ’75 il “plantel” gioca una partita per la Coppa Newton a Montevideo con: La Volpe; Carrascosa, Troncoso, Rocchia, Killer; Azad, Galvan (Solari), Alonzo; Houseman, Bochini, Ortiz. L’Argentina vince 3–2 pur costretta a non utilizzare i giocatori del Boca e del River ad eccezione di Alonzo, ma nell’agosto il Brasile l’elimina dal Campionato sudamericano vincendo 1–0 a Rosario, nonostante una grossissima partita di Kempes, che fra le altre cose colpisce un palo. Ancora per la Coppa Atlantica del 1976 il Brasile viene a vincere (2–1) a Buenos Aires e Menotti si consola unicamente con la conquista del secondo posto davanti a Paraguay ed Uruguay. Nel febbraio 1977 la “seleccion nacional” vince la “Copa de Oro” di Mar del Plata, ma senza convincere appieno, con risultati risicati. Poi dopo la vittoria per 5–1 sull’Ungheria (27–2–1977, Gatti; Tarantini, Olguin, Killer, Carrascosa; Ardiles, Gallego, Villa (Benitez); Houseman (Felman), Luque (Maradona), Bertoni. 3 reti Bertoni, 2 Luque), l’Argentina vola in Europa per festeggiare i settantacinque anni del Real Madrid. Pareggia con l’Iran 1–1 ed accede alla finale con i rigori, ed è sconfitta dal Real (0–1) sollevando nuovamente un vespaio di polemiche che trovano alimento in certe malignità sulla condotta poco professionale dei giocatori. Menotti corre più di un pericolo, ma lo salvano i giocatori assumendo in proprio le responsabilità di quanto successo in terra spagnola.
Poi ancora una serie di partite (3–1 alla Polonia, 1–3 dalla Germania Ovest, 1–1 con l’Inghilterra e Bertoni è espulso per fallo di reazione, 1–1 con la Scozia, 0–0 con la Francia) dai risultati contraddittori che alimentano la tesi dei detrattori di Menotti: le scelte sono sbagliate, preferisce Carrascosa perché è amico suo, non chiama Fillol che è il miglior portiere del paese, non vuole i giocatori che lavorano all’estero per ragioni che non hanno fondamento. Arriva un poco di sereno con le vittorie sulla Jugoslavia (1–0) e sulla Germania Orientale (2–0), ma poi nell’agosto si gioca con il Paraguay per la “Coppa Coronel José Felix Bogado” e a Buenos Aires vince l’Argentina 2–1, ma ad Asuncion è sconfitta 0–2 e la Coppa finisce ai paraguayani. Ed è un’altalena che continua fino a poco più di un mese dal mondiale. Menotti ha dovuto chiamare Fillol del River Plate per un infortunio del portiere titolare Hugo Gatti del Boca Juniors, Carrascosa ha lasciato la compagnia rifiutando la convocazione per il ritiro premondiale, poi il “Director tecnico de la seleccion” ha fatto un lungo giro in Europa per studiare l’opportunità di avvalersi di almeno tre giocatori conosciutissimi sul Vecchio Continente; Mario Kempes del Valencia, Oswaldo Piazza del Saint’Etienne ed Henrique Wolff del Real Madrid. Raggiunge un accordo solamente con il Valencia per Kempes e torna in Argentina per l’ultimo ciclo di partite. Tutte vittorie con Perù (2–1 a Buenos Aires e 3–1 a Lima), Bulgaria (3–1), Romania (2–0) ed Eire (3–1), ma ad appena un mese dal Mondiale una formazione in cui sono compresi molti rincalzi, che si avvale di Luis Galvan, Larrosa, Villa, Houseman, Bertoni è sconfitta senza attenuanti dal debolissimo Uruguay per 0–2, e quindi il 2 giugno quando l’Argentina scende sul campo del River Plate per incontrare l’Ungheria nessuno degli appassionatissimi “hinchas” della “seleccion” sa esattamente quanto potrà credere nella propria squadra. Il tifo è d’obbligo, è un atto di fede ma per gli sportivi e per tutti gli osservatori l’Argentina è la vera ed unica incognita del mondiale.
Verso la fine di maggio s’è aggregato alla comitiva Mario Kempes, è l’unico “traditore” (così definiscono i professionisti che vanno a giocare all’estero),e per l’incontro con i magiari Menotti manda in campo quella che ritiene la formazione titolare: Fillol; Olguin, Luis Galvan, Passarella, Tarantini; Ardiles, Gallego, Valencia; Houseman, Luque, Kempes. Baroti risponde con: Gujdar; Torok, Kocsis, Kereki, Toth; Pinter, Nylasi, Zombori; Csapo, Torocsik, Nagy. Dal primo incontro dei padroni di casa, emergono risultanze chiare e precise: c’è spirito di vittoria, volontà di lottare, capacità di soffrire e impegno nel “pressing”, quando ce n’è bisogno, ma la difesa è aperta alle scorribande avversarie e l’Ungheria passa in vantaggio già al 9′ con Csapo cogliendo il reparto in piena “bambola”.
La reazione è immediata e Luque pareggia al 14′ sugli sviluppi di una punizione di Kempes, ma poi la “seleccion” si fa invischiare nella maestria del maneggio del pallone dei danubiani e Fillol è bravo a sventare qualche pericolo provocato da Torocsik. Ci vuole una distrazione difensiva dei magiari per propiziare il vantaggio di Bertoni (entrato a sostituire Housemann) all’84 e qualche nascosto ma abile aiuto di Mister Garrido che è pronto ad ammonire Passarella e non lo richiama più quando capisce che dovrebbe espellerlo. Allontana invece dal campo Nylasi e Torocsik, innervositi dalla direzione a senso unico, con Garrido che fischia sì le punizioni, ma ammonisce ed espelle chi subisce i falli.
L’Argentina comunque passa ed è attesa all’incontro decisivo con la Francia. Menotti rimane fedele alla prima inquadratura, non presenta dall’inizio Alonzo che ha favorito in qualche maniera il risveglio degli argentini sostituendo Valencia nel corso dell’incontro con i magiari e lascia invariata la difesa che ha suscitato tante critiche. Ed infatti i francesi penetrano nei reparti arretrati, impegnano Fillol, meriterebbero il vantaggio ma lo svizzero Dubach, li punisce con il più assurdo dei rigori provocato da Tresor, che per attutire una caduta appoggia un braccio a terra ed intercetta un tiro di Luque. Passarella trasforma, ma Platini pareggia al 61′ e dopo il vantaggio di Luque (73′ con un gran tiro dal limite), un plateale rigore su Six non viene concesso e per la seconda volta l’Argentina arriva indenne al traguardo della vittoria pur non avendo convinto nessuno. Nella formazione “blanquiceleste” emergono unicamente i centrocampisti Ardiles e Gallego, Fillol ha modo di mettere in mostra le sue virtù, Kempes sembra legato, indeciso, per il resto la squadra mostra limiti di gioco e di personalità molto evidenti. Dopo le due vittorie l’Argentina comanda la classifica con l’Italia che ha a sua volta battuto Francia ed Ungheria, l’incontro del 10 giugno deciderà della dislocazione per il girone di semifinale: Rosario o Buenos Aires. Dopo il disastro in terra di Germania e le dimissioni di Valcareggi, la guida della Nazionale venne affidata al duo Fulvio Bernardini-Enzo Bearzot. Perduta la qualificazione per le finali del Campionato europeo 1976 in favore dell’Olanda, rinnovati quasi completamente i quadri l’Italia partecipava nel maggio 1976 al “Torneo del bicentenario degli Stati Uniti” con Inghilterra, Brasile ed una rappresentativa della Lega Nordamericana nella quale figuravano Pelé e Chinaglia. Era, quella americana, una tappa di avvicinamento alle qualificazioni per il Mondiale, un primo esame del grande lavoro della Commissione tecnica che aveva vagliato quasi una ottantina di giocatori. Le risultanze furono mediocri, gli Azzurri batterono la rappresentativa Usa 4–0, ma furono sconfitti dall’Inghilterra 2–3, dopo aver condotto 2–0 nel primo tempo, e dal Brasile 1–4.
S’era affermata una nuova leva di calciatori che rispecchiava il dominio juventino sul campionato, i legami con il passato rappresentati da Capello, Bellugi, Facchetti, Zoff, Causio, dal momento in cui era stata decisa la giubilazione definitiva di Mazzola e Rivera. Per la qualificazione al Mondiale l’Italia era stata inserita nel II. Gruppo Europeo con Inghilterra, Finlandia e Lussemburgo, il compito appariva proibitivo perdurando una specie di “inferiorità Complex” nei confronti del calcio inglese, ma tuttavia Bearzot era riuscito a formare un complesso omogeneo affidandosi alla fresca vitalità di Tardelli e alla voglia di vincere degli juventini, sempre impegnati nella conquista di ogni traguardo che desse prestigio ed onori in moneta. In questa opera di rivitalizzazione del calcio nostrano Bearzot s’era avvalso dell’aiuto interessato di Radice e Trapattoni, i due allenatori-guida della categoria che nel Torino e nella Juventus, avevano applicato i nuovi principi del calcio totale, imboccando la strada dell’eclettismo, del “pressing” e del gioco a tutto campo. La Juventus dominava in campionato e vinceva la Coppa Uefa, il Torino era il rivale più pericoloso, il gioco delle due squadre raggiungeva in molte occasioni valori assoluti e questo dato di fatto non poteva non riflettersi sulla Nazionale.
Nel primo incontro decisivo con gli inglesi, gli Azzurri vinsero a Roma per 2–0, il 17 novembre 1976, ma fu nel complesso degli incontri che l’Italia riuscì a qualificarsi segnando più reti e la sconfitta del 14 novembre 1977 allo Stadio di Wembley (0–2) venne assorbita con indifferenza, poiché per andare in Argentina bastava battere il Lussemburgo. A parità di punteggio (10 punti cadauna) l’Italia andava al Mondiale per la miglior differenza reti, 18–4 contro 15–4. Era comunque opinione comune che questa squadra avesse dato il meglio di sé durante la stagione 1977 e che molti giocatori pagassero lo scotto del fantastico campionato 1976–1977 quando la Juventus vinse con 51 punti distanziando il Torino di un solo punto. Il torneo 1977-‘78, vinto nuovamente dalla Juve, non toccò i vertici del precedente, la squadra di Trapattoni giocò al risparmio per tutta la stagione regolandosi sui bisogni del momento. Dove occorreva pareggiare non si spendeva una stilla in più del dovuto, la resistenza del Torino si era affievolita, il comportamento delle due formazioni guida non alimentava certamente sogni di gloria.
L’ultima partita di preparazione per il Mondiale con la Jugoslavia a Roma (0–0), denunciò carenze di preparazione, i giocatori sembravano stremati, asfittici, si invocava a gran voce il nome di Paolo Rossi, che il Commissario unico non volle impiegare nella serata. Morale: quando la Nazionale azzurra partì per l’Argentina una sua vittoria finale era pagata a 200 nelle scommesse e l’accesso al girone di semifinale 40. Quote impossibili che rispecchiavano la sfiducia totale nelle possibilità dei giocatori.
L’unico ad aver fiducia incrollabile restava Enzo Bearzot, che appariva ai più come un Don Chisciotte prigioniero dell’ideale. Inserita in un girone di ferro con l’Argentina, la Francia e l’Ungheria, la Nazionale azzurra era attesa al debutto con la Francia il 2 giugno.
Vagliate le condizioni dei giocatori, non potendosi avvalere dello squalificato Cuccureddu, Bearzot decise per: Zoff; Gentile, Bellugi, Scirea, Cabrini; Benetti, Tardelli, Antognoni; Causio, Rossi, Bettega. Le incertezze della vigilia risolte in favore di Rossi invocato da tutta la stampa nazionale e di Cabrini, e qui Bearzot mise molto del suo, poiché la stampa sempre importante in momenti simili, propendeva per Maldera, più esperto del giovane della Juve che nel campionato era stato poco impiegato. Ad appena 32″ dall’inizio, Zoff subiva da parte di Lacombe una rete stupenda, scaturita da una azione prolungata di Six sulla sinistra che Gentile non riusciva a fermare, da un centro pennellato per Lacombe che sorprendeva Bellugi ed insaccava. Azione lineare. Formidabile! Gli Azzurri non denunciarono smarrimenti morali, presero a macinare un gioco che lasciò esterrefatti gli argentini ed i venticinque milioni di italiani che erano davanti al televisore. Il gol era nell’aria, nelle invenzioni di Paolo Rossi, nell’incredibile efficacia di un Bettega scatenato a mostrare la completezza del suo bagaglio di calciatore, nel gioco battente di Benetti, nelle pirotecniche esibizioni di Franco Causio che mandava in visibilio i puristi argentini. Pareggiò Paolo Rossi al 29′, Zaccarelli (entrato a rilevare lo spento Antognoni) guadagnò il vantaggio al 54′.
C’era da stropicciarsi gli occhi, dopo la prima giornata del Mondiale, gli Azzurri avevano rovesciato tutti i pronostici ed erano indicati come l’unica squadra che avesse realmente onorato il calcio. Quattro giorni dopo l’Ungheria menomata per le assenze di Nyilasi e Torocsik, venne travolta per 3- 1 con reti di Rossi, Bettega e Benetti, e “cabeza bianca”, così chiamavano Bettega gli argentini, colpì tre volte i legni della porta di Meszaros. A pari merito con l’Argentina, l’incontro diretto avrebbe deciso della destinazione delle due squadre: la vincente sarebbe rimasta a Buenos Aires, l’altra avrebbe dovuto emigrare a Rosario.
Agli ordini dell’arbitro israeliano Klein, uno dei migliori del Mondiale, Italia ed Argentina scendevano in campo in un incontro denso di significati. L’Italia era indicata come la migliore formazione del Mondiale, all’Argentina venivano riconosciuti come decisivi i vantaggi del fattore ambientale. La sfida venne affrontata seriamente dai due tecnici che allinearono le formazioni migliori. Italia: Zoff, Gentile, Bellugi (dal 6′ Cuccureddu), Scirea, Cabrini; Benetti, Tardelli, Antognoni; Causio, Rossi, Bettega.
E Argentina: Fillol; Olguin, Luis Galvan, Passarella, Tarantini; Ardiles, Gallego, Valencia; Bertoni, Kempes, Ortiz. Davanti a 76.000 spettatori, ammutoliti dalla superiorità tecnica degli Azzurri, dalla personalità di una squadra che comandava il gioco a suo piacimento, che si accendeva improvvisamente del genio di Rossi, dell’abilità di Bettega, del movimento instancabile e possente di Romeo Benetti, della fresca vivacità di Cabrini, dell’efficacia di un Gentile superbo che cancellava dal campo Kempes, la tifoseria argentina attendeva il momento della verità che Fillol aveva evitato nel primo tempo con una prodezza eccezionale su tiro ravvicinato di Bettega, ma che non poteva essere ulteriormente procrastinato.
Al 67′ Cabrini allunga ad Antognoni che cerca Bettega sulla tre quarti argentina. “Cabeza bianca” si porta in avanti e detta a Rossi un triangolo che “Pablito” è pronto a disegnare con il tacco, la palla è in area sui piedi di Betega, tiro preciso di destro nell’ angolo basso alla destra di Fillol colto in uscita. È il gol-partita ed è anche il più bel gol del Mondiale, l’Italia resterà al River Plate e la vittoria resterà segnata per sempre nel libro d’oro azzurro come una delle più belle di tutta la sua storia.
Poche squadre europee, forse nessuna ha mai vinto a Buenos Aires, le polemiche della vigilia sul gioco a perdere per risparmiare fiato fanno parte di un bagaglio di furbizie che sarebbe meglio dimenticare. Finito il girone di qualificazione s’impone una tregua per cercare di capire cosa è successo in una squadra che sembrava composta da un branco di derelitti ed invece nel fuoco della battaglia si è trasformata in una formazione data a 2–1 per la vittoria finale. Innanzi tutto l’innesto di un fuoriclasse come “Pablito” Rossi: solamente i grandi del calcio hanno la proprietà di trasformare un buon complesso in una grande orchestra e Rossi con la linearità ed il genio delle cose facili c’è riuscito immediatamente più dando che ricevendo, perché certi schemi vanno studiati e con Bettega e Causio non c’è stato il tempo per farlo.
Poi Cabrini, una grande realtà, un giocatore da cui si temevano ripercussioni emozionali ed invece ha giostrato con le capacità di un veterano di mille battaglie. Poi Gentile, il grande Bettega che a metà torneo era certamente il miglior giocatore del Mondiale, il formidabile Scirea finalmente autoritario, Zaccarelli sempre positivo negli innesti che Bearzot operava per dare respiro, ed il grandissimo Causio che fu definito il più sudamericano degli europei. Ma una parte dei meriti, oltre che a Bearzot ed ai giocatori, vanno riconosciuti anche a Radice e Trapattoni che hanno portato a fine stagione giocatori ancora in grado di esprimersi su livelli fisici ottimali ed hanno fornito a Bearzot elementi in grado di giostrare sui canoni del calcio moderno che non richiede specializzazioni ma giocatori in grado di operare in qualsiasi zona del campo.
Per il Brasile di Coutinho atteso al Mondiale come probabile vincitore, che dopo il quarto posto in Germania, aveva vinto il Torneo del “Bicentenario”, la Coppa Atlantica ed era stato sconfitto per sorteggio (sic) dal Perù nella corsa al titolo “Sudamericano”, le cose cominciarono a complicarsi dopo la vittoriosa tournee europea, una serie di tutte vittorie eccetto con Inghilterra (1–1) e Francia (0–1), quando il “tecnico” comunicando la lista dei ventidue aveva depennato giocatori come Luis Pereira e Francisco Marinho, Paulo Cesar Lima ed altri del sempre ricco “carnet” brasiliano. Lo stesso Rivelino aveva corso rischi grossi travolto dalla guerra fra Zico e Dirceu, e da un infortunio che si trascinava da lungo tempo. Inserita nel gruppo tre con Svezia, Spagna e Austria, la “selecao” debutta malamente con la Svezia. Pareggia 1–1, ma mostra limiti evidenti; con la Spagna si ripete sullo 0–0, ma Cardenosa, attaccante spagnolo, fallisce la più incredibile delle occasioni che avrebbe eliminato i “tricampeao”. Vittoria di stretta misura, risicatissima con l’Austria 1–0 per un gol di Roberto, che Coutinho è stato costretto ad utilizzare per ordini superiori. Il Brasile comunque passa il turno ed andrà a fare compagnia all’Argentina a Rosario, mentre l’Austria vincitrice del gruppo tre per le vittorie sulla Spagna (2–1) e sulla Svezia (1–0) andrà nel girone semifinale che accoglie l’Italia.
Il ritorno del calcio austriaco ai massimi livelli dopo vent’anni esatti di assenza, testimonia dei progressi compiuti recentemente dai viennesi che sono riusciti ad esprimere una generazione di professionisti abituati ai ritmi delle infuocate partite dei campionati tedeschi, belgi, olandesi, ma anche a livello nazionale con Prohaska, centrocampista dell’Austria-Wac che ha raggiunto la finale di Coppa delle Coppe 1978, e del cannoniere Hans Krankl, del Rapid, vincitore della classifica marcatori per quattro stagioni, si sono denunciati nettisimi miglioramenti che fanno ben sperare per il futuro del calcio danubiano.
Analizzati i due gironi più difficili non rimane che ricordare il facile cammino della Polonia e della Germania nel gruppo due con i tedeschi fermati sul pareggio dalla Tunisia e dall’incredibile eliminazione della Scozia in favore del Perù e dell’Olanda nel gruppo quattro. Battuta dal Perù (1–3) dopo aver fallito una incredibile serie di gol, fermata sul pareggio dall’Iran (1–1), la Scozia ha giocato in Argentina una sola partita all’altezza della sua fama, battendo l’Olanda 3–2 e facendo così passare nel dimenticatoio le stravaganze dei rappresentanti dell’isola britannica, colti nell’unico episodio di “doping” del Mondiale con Johnstone e salutati più come beoni che come calciatori.
Per una disposizione molto discutibile degli organizzatori, troppe partite sono state falsate sia dalla non contemporaneità dell’avvenimento che dalla possibilità dei calcoli per la scelta di un girone più duro o meno duro. Dalla scandalosa opportunità data all’Argentina di regolarsi nel punteggio sul Perù, conoscendo già il risultato della partita Brasile-Polonia, alla possibilità per l’Olanda di scegliere il girone di Buenos Aires, ritenuto più agevole di quello comprendente l’Argentina per fattori ambientali, il passo è breve. Inoltre i gironi di semifinale tolgono a molte partite quella drammaticità cui il Mondiale aveva abituato e non sarebbe male cercare di conciliare le cose sul piano delle esigenze finanziarie degli organizzatori e della spettacolarità dell’avvenimento che troppo ne risente.
Al girone di semifinale di Buenos Aires accedono: Italia (unica a punteggio pieno), Austria, Olanda e Germania; a quello di Rosario: Argentina, Brasile, Polonia e Perù. A Buenos Aires si comincia con Italia- Germania Ovest e Olanda-Austria.
Per l’incontro dei nostri Azzurri sono presenti allo stadio del River Plate 75.000 spettatori, l’avvenimento evoca il ricordo dell’oramai leggendaria partita dell’Azteca, ma la squadra di Schoen teme l’Italia, si chiude a riccio nella propria metà campo, corre più di un
pericolo, ma Maier, un poco per merito suo poi per l’imprecisione degli attaccanti italiani, ma anche per la buona sorte sotto forma di un tallone di Kaltz che respinge un tiro a botta sicura di Bettega e della traversa che respinge un tiro di Cabrini, mantiene inviolata la propria rete battendo il record di Banks, che durante il Mondiale 1966 aveva mantenuta inviolata la propria rete per 438 minuti. Dopo l’incontro con gli Azzurri Maier detiene il primato con 449′ e lo porterà a 475′ nella successiva partita con l’Olanda.
A Cordoba si gioca l’incontro fra Olanda e Austria e gli olandesi che avevano iniziato il Mondiale in sordina, vincendo con l’Iran 3–0 (una tripletta di Rensenbrink con due rigori), pareggiando 0–0 con il temibile Perù di Cubillas, e rischiando la eliminazione con la Scozia (2–3), gettarono sul tavolo da gioco l’effettiva consistenza di una formazione rinnovata, che esaltava i pregi del calcio totale, dell’applicazione sistematica, del professionismo nel senso più lato del termine. Ogni olandese sa improvvisare in ogni parte del campo, sa realizzarsi come difensore o attaccante, come costruttore o distruttore. L’Austria, regina del contropiede, è infilata impietosamente dal contropiede degli olandesi e sconfitta per 5–1.
A Rosario si gioca Argentina-Polonia, Menotti deve fare ancora a meno di Luque e inserisce Bertoni sulla sinistra. È la migliore Argentina del Mondiale, Kempes comincia a distribuire le forze, a mettersi in evidenza con una falcata elegante ed una efficacia risolutiva sotto rete. Segna una doppietta a Tomaszewski, Kempes, ma il momento-clou della partita si risolve in favore degli argentini quando al 37′ Deyna fallisce il possibile pareggio sul rigore che Fillol para con bella intuizione. A Mendoza il Brasile distrugge le illusioni del Perù con un perentorio 3–0, ed ha fatto intravedere notevoli miglioramenti giocando su dì un terreno meno soffice di quello di Mar del Plata. La prevalenza nel girone di Rosario e Mendoza sarà decisa dallo scontro diretto fra Argentina e Brasile, mentre l’Italia deve battere l’Austria per continuare a sperare in un posto di finalista. Argentina-Brasile si gioca il 18 giugno a Rosario, con il piccolo stadio stracolmo di oltre 50.000 spettatori. Menotti schiera quella che diverrà la formazione storica della XI Coppa del mondo: Fillol; Olguin, Luis Galvan, Passarella, Tarantini; Ardiles, Gallego, Kempes; Bertoni, Luque, Ortiz. Ed il Brasile scende in campo con: Leao; Toninho, Oscar, Amarai, Rodrigues, Neto; Chicao, Batista, Dirceu, Mendonca; Gil, Roberto. È una lotta asperrima, che rischia di degenerare per la cattiveria che affiora in ogni intervento. Ma Palotai riesce a portare il combattimento sul piano della legalità senza ammonire nessuno. Gli argentini temono gli “auriverdi” perché da lungo tempo non riescono più a vincere un incontro, ma le prime palle-gol sono per i biancocelesti: due per Kempes (12′ e 16′) ed una clamorosa per Ortiz a pochi minuti dal riposo. Nella ripresa cresce la pressione dei brasiliani, la difesa argentina vacilla, sembra sul punto di cedere, ma è Fillol che salva il risultato in due occasioni su Roberto, collezionando i due interventi ad uno difficilissimo della prima frazione su tiro di Gil.
Finisce con le reti vergini l’incontro più atteso e la Polonia a Mendoza ha battuto il Perù per 1–0, saranno decisivi gli ultimi due incontri, Brasile-Polonia e Argentina-Perù per l’accesso alla finalissima A Buenos Aires gli Azzurri riescono a battere l’Austria con una rete geniale di “Pablito”, ma affiora nei muscoli dei nostri una certa stanchezza. Segnata la rete al 12′ la nostra rappresentativa prende a giochicchiare con il chiaro scopo di far trascorrere i minuti. Koncilia, portiere austriaco, neutralizza tre palle gol a Cabrini, Cuccureddu e Tardelli, ma Bettega è in pessima giornata e Benetti non è certamente il leone delle partite precedenti. l’utilizzazione di Bellugi in condizioni piuttosto malconce per un disturbo inguinale ha consigliato a Bearzot a sostituire Bettega solamente al 72′ ed il finale in crescendo lascia intatte le speranze nella conquista di un posto di finalista. A Cordoba la Germania passa due volte in vantaggio con l’Olanda ma prima Haan e quindi Willi Van de Kerkhof riescono a ristabilire la parità iniziale. Anche nel gruppo di Buenos Aires e Cordoba decideranno le ultime partite: Germania-Austria e Italia-Olanda. I dirigenti brasiliani cercano in ogni modo di correggere la disposizione che permette all’Argentina di giocare un paio d’ore dopo conoscendo il risultato sufficiente per accedere alla finalissima. Ma non c’è nulla da fare, i vantaggi di cui aveva usufruito il Cile nel ’62, l’Inghilterra nel ’66 ed in pratica di tutte le nazioni che hanno ospitato la Coppa del mondo, vengono rivendicati anche dagli argentini, e la disposizione resta immutata. Il Brasile compie appieno il suo dovere in grazia di una ritrovata efficienza scaturita dalla regia di Dirceu, dalle qualità di cannoniere di Roberto, e dall’estro di Mendonca, un elemento sempre positivo che Coutinho stranamente non utilizza per intero. Vince 3–1 il Brasile con le reti di Nelinho e Roberto (2) e si piazza davanti al televisore per assistere alla partita decisiva fra argentini e peruviani. Gli uomini del messicano Calderon, nel ’70 difendeva la rete del Messico al Mondiale, cominciano al gran galoppo conquistando due preziosissime palle gol: una neutralizzata da Fillol, l’altra finita sul palo dopo che Munante ha “bevuto” l’intera difesa argentina. La diana del risveglio la suona comunque Kempes, che arretrato all’altezza dei centrocampisti riesce meglio ad impostare le azioni ed arrivare all’appuntamento con il gol lanciato in piena velocità, come preferisce. Apre le marcature al 20′ e Tarantini raddoppia al 43′ ed è dopo la rete del terzino che il Perù scade a livelli vergognosi, concedendo ai padroni di casa quattro gol in 24′, di Kempes al 48′, Luque al 49′, Houseman al 66′ e ancora Luque al 72′. A parità di punteggio l’Argentina si qualifica per la finalissima grazie alla migliore differenza reti, 8–0 contro 7–1 ed è estremamente discutibile che una formazione che non ha mai perduto venga condannata a giocare per il terzo posto. Italia e Olanda si incontrano a Buenos Aires mentre l’Austria contemporaneamente cerca di sbarrare la strada alla Germania per lasciare un buon ricordo di sé in questo Mondiale. All’Olanda basta il pareggio per disputare la finalissima in grazia della migliore differenza reti ed infatti gioca chiusa, contratta ed i nostri esaltano nuovamente il gioco d’attacco, come hanno fatto durante il girone di qualificazione. Al culmine di una pressione di 20′, i nostri passano in vantaggio con una autorete di Brandts che toglie il pallone dai piedi di Bettega, mentre sta per tirare ed infila Schrijvers in uscita. Il vantaggio è meritato ma non rispecchia fedelmente l’andamento dell’incontro, perché Benetti, Causio, Cabrini e ancora Causio hanno sprecato quattro possibili palle gol e Jongbloed appena entrato a rilevare Schrijvers ha fermato un violento e difficile tiro di Benetti. Al riposo Bearzot sostituisce Causio con Claudio Sala per concedere respiro allo juventino e Happel, allenatore degli olandesi, che si era privato dell’energia di Neeskens sacrificandolo su Paolo Rossi, lo riporta alle sue mansioni abituali e consiglia ai suoi di attuare il “pressing” a tutto campo.
Ma durante il primo tempo c’è stato un episodio che ha influito enormemente sul rendimento dei nostri. Lo spagnolo Martinez, arbitro della contesa, ha permesso agli olandesi un gioco intimidatorio ai limiti del regolamento ed ha cominciato ad ammonire i nostri che vistosi fatti bersaglio di colpi proibiti hanno pensato bene di rispondere per le rime. Il primo a finire sul cartellino giallo di Martinez è Benetti, verso il 25′ del primo tempo e l’episodio manda in barca il buon Romeo che già colpito da una ammonizione nell’incontro con l’Argentina, sa che non potrà giocare nessuna finale per l’automatica squalifica. All’inizio della ripresa i nostri cercano di controllare il gioco, ma il ritmo degli olandesi straripa e al 5′ gli “orange” pareggiano con un tiro della domenica scagliato da Brandts da una ventina di metri mentre stava cadendo. Nell’azione precedente il gol c’è il sospetto di un pugno in viso a Zoff non rilevato dal solito Martinez, che visto Zoff scagliare la palla in fallo laterale e lamentarsi per la carezza ricevuta, non ha fatto altro che concedere agli arancioni la rimessa laterale.
Con il pareggio la forza della squadra olandese cresce, finalmente si affida al gioco e alle manovre abituali, sfiora ancora il gol con una azione da manuale, i nostri non ci sono né psicologicamente né fisicamente, solamente Rossi e Cabrini cercano di imbastire una qualche reazione, ma al 77′ un altro gol della domenica ci condanna definitivamente. Su una palla contestata a metà campo da Benetti e da due olandesi interviene l’arbitro Martinez concedendo la punizione agli arancioni. La batte Krol che appoggia su Haan, due passi in corsa e gran botta da quaranta metri, la palla schizza sul palo alla sinistra di Zoff e finisce in rete. Si perde (1–2), ma si disputerà ugualmente la finale per il terzo posto perché inaspettatamente a Cordoba l’Austria di Krankl ha battuto la Germania 3–2. Un successo notevole viste le condizioni di partenza, ma l’occasione è troppo ghiotta per i necrofori che per lungo tempo sono stati costretti a tacere e saltano fuori i processi a Zoff. Per la quinta volta l’Italia arriva ad una finale mondiale. Le altre quattro erano state per il titolo, questa è per il terzo posto ma è ugualmente una conquista di prestigio. Le squalifiche di Benetti e Tardelli e l’indisposizione di Zaccarelli, hanno costretto Bearzot a rivoluzionare la formazione inserendo Patrizio Sala, Maldera ed Antognoni e pur tuttavia i nostri giocano un primo tempo da manuale passando in vantaggio al 39′ con Causio che trasforma una centrata successiva ad un formidabile spunto in area di Paolo Rossi, colpendo tre volte i legni e fallendo come al solito troppe occasioni da rete. Nella ripresa ci condannano altri due gol della domenica di Nelinho e Dirceu, quattro tiri da fuori, quattro gol e sul finire, colmo della disdetta, Bettega si eleva alla perfezione, colpisce, si urla al gol ma la palla incoccia la traversa e scivola oltre il fondo. Siamo quarti, siamo ugualmente felici, ma il massimo quotidiano sportivo titola a tutta pagina “Zoff ci condanna”. Incredibile! La ricerca del capro espiatorio è un vizio di sempre tra noi, ma in questa occasione guasta l’atmosfera. Si temono gesti inconsulti al ritorno dei nostri, ma l’aeroporto di Roma è strapieno di gente che accoglie gli Azzurri come vincitori. Per la terza volta in quattro anni l’Olanda arriva al dunque per la conquista di trofei prestigiosi. Nel ’74 a Monaco solo una grande Germania impedì agli arancioni la conquista della Coppa del Mondo. In Jugoslavia nel ’76 la Cecoslovacchia la battè 3–1 inaspettatamente in semifinale. Due occasioni sprecate, due pronostici rovesciati, perché alla vigilia dei due avvenimenti l’Olanda veniva indicata come sicura vincente. Assente Cruijff per mancanza di stimoli, a soli 31 anni si allontana dal calcio che l’ha fatto forse troppo ricco, l’Olanda perde la brillantezza che le derivava dalle esibizioni del grande Johann. Ma pur tuttavia Happel riesce a formare un collettivo in cui operano ancora i Rep, Rensenbrink, Krol, Haan, Jansen, Neeskens che appartengono alla generazione dei grandi, amalgamandoli con i De Kerkhof, i Poortvlijet, i Brandts che si sono affacciati alla ribalta in epoca più recente. Con la partenza degli assi per l’estero il calcio olandese ha mostrato qualche cedimento e dopo il triennio di dominio dell’Ajax nessuna formazione ha saputo ripetere quelle imprese, ma la caratura della squadra olandese è di tutto rispetto e il pronostico alla vigilia dell’incontro decisivo della XI Coppa del mondo è incerto. L’Argentina gode dei vantaggi ambientali, ma davanti a quasi un miliardo di spettatori nessun arbitro aiuterà troppo sfacciatamente i padroni di casa. Menotti e Happel si affidano alle formazioni migliori con:
Fillol; Olguin, Luis Galvan, Passarella, Tarantini; Gallego, Ardiles, Kempes; Bertoni, Luque, Ortiz; e con: Jongbloed; Jansen, Brandts, Krol,
Poortvlijet; Haan, W. Van de Kerkhof, Neeskens; R. Van de Kerkhof, Rep, Rensenbrink.
La direzione dell’incontro è affidata all’italiano Gonella, un segno di stima verso il nostro calcio e lo stadio del River è stracolmo di 80.000 presenti. Affiora immediatamente un nervosismo troppo accentuato, Gonella impedisce agli olandesi il gioco intimidatorio abituale, ma non trova di meglio che abbozzare quando Passarella stacca due denti a Neeskens con una gomitata. Quattro ammonizioni agli olandesi (Krol, Poortvlijet, Neeskens, Suurbier), nessuna ai padroni di casa che nel corso del primo tempo riescono a rendersi pericolosi solamente un paio di volte e Fillol al contrario merita una montagna di applausi quando salva ripetutamente il risultato. L’Olanda è più squadra, più compatta, attacca in forze, ma non ha l’uomo che possa “faire la difference” come dicono i francesi, poiché Rensenbrink alle prime botte ricevute s’è messo calmo e Rep non è in grande giornata.
L’uomo-partita è invece nelle file argentine ed è Mario Kempes che impiegato da centravanti aveva evidenziato qualche difficoltà nel superare l’avversario diretto, ma che arretrato sulla linea dei centrocampisti ed operando a tutto campo riesce ad esprimere tutta l’efficacia e l’abilità di cui madre natura l’ha dotato. Segna la rete del vantaggio con una prodezza al 38′ infilando Jongbloed in uscita e sostiene in pratica il peso a la fatica degli Ardiles e dei Gallego, aggiungendo la brillantezza di una presenza puntuale in zona-gol. Nella ripresa crescono gli olandesi alla ricerca del pareggio, ma la direzione di Gonella spezza il ritmo dell’offensiva, gli argentini si salvano da alcune situazioni piuttosto critiche ma all’81′ il pareggio è cosa fatta in seguito ad una serie di errori di Tarantini e di Luis Galvan che Nanninga (subentrato a Rep) sfrutta battendo di testa Fillol. All’ultimo minuto un lungo brivido corre sugli spalti del River, Rensenbrink in prolungata azione sulla sinistra, arriva al tiro ad un cinque metri dalla porta argentina, tenta di infilare fra palo e portiere ma la palla incoccia sul legno e torna in campo.
L’Olanda perde la Coppa del Mondo con questo episodio, i tempi supplementari portano alla ribalta ancora Kempes, un dominatore, che al 104′ porta in vantaggio i “blanquicelestes” e 10′ dopo dà a Bertoni la palla del terzo gol. 3–1 il risultato finale: l’Argentina è campione del mondo! Tutte le frustrazioni, gli appetiti inappagati si rovesciano in una grande manifestazione di felicità che trasforma Buenos Aires nella Rio de Janeiro dei giorni del carnevale. L’Argentina è campione del mondo per la felicità della sua “hinchada”, ma nel giudizio a posteriori è molto difficile assegnare agli uomini di Menotti la palma di migliore formazione del mondiale, risultando troppo evidenti gli aiuti ricevuti come era già successo in Cile, in Inghilterra ed in Italia nel ‘34.
Bibliografia: Storie di Calcio