Molteplici sono i vincoli l’Italia e il Peñarol: calciatori, storie e curiosità, a cominciare dal soprannome “Manya” rivendicato con orgoglio dai tifosi. “Il Peñarol è l’espressione sociologica dell’Uruguay che viene costruito dall’immigrazione” spiega Julio María Sanguinetti, ex presidente della Repubblica. Quando nel 1751 un giovane piemontese lasciò la sua terra natale, nessuno immaginava che il nome di una cittadina piemontese avrebbe segnato la storia del calcio in un paese del “nuovo mondo”.
Giovanni Battista Crosa partì da Pinerolo, nelle vicinanze di Torino, e sbarcò nel 1765 a Montevideo dopo un soggiorno in Spagna, dove sposò Francisca Pérez Bracaman. Una volta giunto in questa città, si stabilì in una zona rurale a circa 13 chilometri dal centro.
Qui fondò un piccolo supermercato che funzionava anche come bar diventando il punto di incontro degli abitanti del luogo. Sia nei documenti ufficiali che nel linguaggio popolare Pinerolo venne deformato in Peñarol, nome con il quale si sviluppò un quartiere che nel corso degli anni seguenti accoglierà tante famiglie di immigrati (in maggioranza italiani).
Nel luglio del 1890 l’impresa britannica “Central Uruguay Railway Company”, che operava già da diverso tempo nel paese, comprò 17 ettari di terreno in questa zona di Montevideo. Pochi mesi dopo l’inizio delle attività gli impiegati e gli operai della ferrovia -inglesi, uruguaiani e discendenti di italiani- fondarono un club sportivo chiamato CURCC, Central Uruguay Railway Cricket Club. Ma per tutti era comunemente Peñarol. I colori del club, giallo e nero, si ispirarono alla Locomotiva Rocket ed erano allo stesso tempo i colori del sindacato delle ferrovie. Già alcuni mesi dopo la sua fondazione, il CURCC aprì una sezione dedicata allo sport che diventerà il più amato dagli uruguaiani: il calcio, o meglio il “football” come veniva chiamato all’epoca.
Se è vero che gli inglesi diedero l’impulso alla creazione della squadra di calcio, gli italiani offrirono senz’altro un’impronta indelebile che ha caratterizzato tutta la storia dei carboneros. Basta pensare che nei primi anni in cui il calcio muoveva i suoi primi passi, la popolazione del barrio era quasi per la metà italiana e molti uruguaiani che si definivano tali erano discendenti di italiani. Non è un caso, infatti, che il tentativo inglese di ribattezzare il quartiere “Nueva Manchester” non andò mai in porto dato che per tutti rimaneva sempre la zona del piemontese Giovanni Battista Crosa. Nel 1913 il club cambiò nome in CURCC Peñarol fino ad arrivare, l’anno seguente, alla denominazione che mantiene ancora oggi: Club Atlético Peñarol. “Quando l’immigrato arriva nel nuovo paese costruisce una subcultura con forti richiami alla terra di origine” spiega Luciano Álvarez, docente, giornalista e scrittore uruguaiano. “Le istituzioni sportive o culturali offrono forme di relazioni sociali. In Uruguay, a differenza dei paesi vicini, il calcio è stato fin dai primi anni un fenomeno di massa molto popolare. Ecco, la squadra giallo-nera si inserisce in questo contesto, in una società che si stava profondamente trasformando: c’è una tradizione storica fin troppo evidente che collega gli italiani al Peñarol. È un fatto indiscutibile” dichiara Álvarez.
Probabilmente, per capire questo vincolo italouruguaiano, bisogna risalire al 1899 quando venne fondato a Montevideo il Club Nacional de Football, il suo storico rivale. Fin dalle origini si autoproclamò “la squadra creola” con i colori della bandiera di Artigas, proprio a sottolineare la vocazione nazionale del primo club creolo dell’America Latina.
Una caricatura di José Antonio Piendibene Ferrari
“Come succede in ogni società, anche in Uruguay ci fu una forte resistenza contro gli immigrati e, naturalmente, contro gli italiani. A tutto ciò ha contribuito anche la squadra tricolore, nei suoi primi anni di vita, con un discorso classista e razzista” afferma il giornalista de El País autore del libro “Historia de Peñarol”. “Nei primi due decenni del novecento ci fu un forte processo di popolarizzazione del calcio. Tra i carboneros militavano diversi giocatori dei settori più marginali, cosa sconosciuta nei primi anni del Nacional o almeno fino al 1912”. “Nel corso del tempo – continua Álvarez- anche il Nacional si è aperto ai settori più popolari ma comunque sia c’è stata moltissima meno presenza di italiani rispetto al Peñarol”. Il legame tra una delle squadre sudamericane più vincenti e l’Italia non è dato solo da una cittadina torinese. C’è qualcosa di molto più profondo. Ci sono calciatori, storie e curiosità.
A cominciare da quel soprannome –“Manya”– che ogni tifoso racconta con orgoglio agli italiani quasi a testimoniare la memoria via dell’italianità alla uruguaya. Il nome con cui si identificano ancora oggi i tifosi nacque il 26 luglio del 1914. A pronunciarlo fu Carlos Scarone, figlio di Giuseppe partito da Savona nel 1887 per lavorare nell’emergente ferrovia uruguaiana. Carlos iniziò a giocare nel 1909 nelle file del CURCC. Nel 1913 ricevette un’allettante offerta economica dall’Argentina e l’anno seguente si trasferì dagli odiati rivali del Nacional scegliendo così di abbandonare per sempre la squadra del cuore del padre. Le parole che pronunciò a don Giuseppe per spiegare la dolorosa scelta fecero storia: “Che rimango a fare al Peñarol? A mangiare che? A mangiare merda?” (quest’ultima frase in italiano). Con il tempo l’insulto si è trasformato in rivendicazione delle proprie origini per tutti i tifosi aurinegros.
Nel libro di Álvarez (Aguilar, 2004), frutto di ricerche durate cinque anni e scritto con la collaborazione di Leonardo Haberkorn, si trovano alcuni particolari sulla storia della compagine peñarolense.
Nel marzo del 1908 ci furono disaccordi all’interno della dirigenza inglese che produssero uno sciopero dei lavoratori ferroviari che mise a rischio la continuità della stessa squadra. Il quotidiano “La Tribuna Popular” pubblicò un articolo in cui si descriveva la precaria situazione del club appena prima l’inizio del torneo. Quattro giorni dopo, sulle pagine dello stesso giornale, comparve una lunga lettera d’indignazione firmata “Back II” che così si concludeva: “Peñarol no ha muerto, a despetto di maligne”. Per quanto riguarda i primi grandi calciatori aurinegros, si trovano rilevanti tracce di italianità: da Mazzucco a Schiaffino, l’elenco degli italouruguaiani che hanno reso celebre la squadra di Pinerolo è molto lungo. A dire il vero, fino agli anni ’50, quasi tutte le più grandi leggende del club erano figli o nipoti di italiani. Basta pensare alle prime due stelle, Lorenzo Mazzuco e Josè Piendibene, entrambi avevano i genitori italiani.
Mazzuco approdò al club nel 1897 e vinse le prime coppe uruguaiane; è ricordato per i suoi straordinari colpi di testa anche se morì in piena gioventù nel 1909. Le cronache narrano che incitava i compagni in campo al grido di “Come one, fellows!” con un forte accento italiano. Piendibene era l’orgoglio dei ragazzi di Pocitos (una zona della capitale), molti dei quali condividevano con lui le stesse origini. “Nel 1908, per via dello sciopero, i dirigenti andarono alla ricerca di giovani calciatori per la città e così riuscirono negli ultimi giorni ad iscrivere la squadra al torneo” racconta Álvarez. Piendibene, detto “El maestro”, giocò ad alti livelli fino al 1928 sia con il Peñarol che con la nazionale uruguaiana raccogliendo molteplici successi. In questo periodo, sulla scena calcistica internazionale, comparve anche il centrocampista Rafael Sansone, figlio di salernitani che partecipò ai primi grandi successi della Celeste: campione olimpico nel ’24 e nel ’28. Poi si trasferì in Italia, dove giocò diversi anni nel Bologna e chiuse la carriera al Napoli.
Il difensore Ernesto Mascheroni si laureò campione del mondo con l’Uruguay nel torneo organizzato in casa nel 1930, in seguito fece due stagioni all’Ambrosiana-Inter. Sia Sansone che Mascheroni, giallo-neri durante gli anni 30, disputarono anche alcune partite con la selezione azzurra.
Mario Bocchio