Oggi il Coronavirus ha gettato nel caos il mondo del pallone ma non è la prima volta che l’emergenza sanitaria scombini il calcio. Ecco che cosa successe quando negli anni ’80 del secolo scorso apparve l’Hiv. Campionato sì, campionato no. Partite a porte aperte o stadi chiusi. Rinvii, sospensione dei tornei o avanti con la “normalità”. Anche il calcio, inevitabilmente, ha finito per essere travolto dall’emergenza coronavirus di questi giorni. Addetti ai lavori, semplici tifosi, politici e scienziati: tutti si sono lanciati in decine di proposte, centinaia di soluzioni e migliaia di polemiche su come il principale sport nazionale debba convivere con il COVID-19. Non è la prima volta che questioni calcistiche e problematiche sanitarie finiscono per intrecciarsi e il mondo del pallone sia obbligato a fare i conti con imprevedibili e sconosciute minacce virali. Accadde negli anni Ottanta del secolo scorso, con l’irrompere su scala planetaria dell’Hiv, ovvero del “Virus dell’immunodeficienza umana”, causa dell’Aids. Con l’espandersi della malattia, i vertici mondiali del calcio cominciarono a preoccuparsi della salute dei giocatori e studiarono alcune misure per evitare, o quanto meno limitare al minimo, i rischi di contagio.
Letti oggi, a distanza di 35 anni, con le attuali conoscenze mediche ignote alla comunità scientifica di allora, alcuni suggerimenti ipotizzati per fronteggiare il rischio Hiv fanno sorridere, tanto sfiorino il senso del ridicolo. Altre misure, invece, sono sopravvissute e ancora fanno parte dell’attuale regolamento ufficiale della Fifa in vigore.
“Bisogna controllare tutti i turisti svedesi nei nostri aeroporti per essere sicuri che non portino l’Aids”. Così, nell’ottobre 1985, la stampa turca titolò alla vigilia dell’incontro valido per gli ottavi di finale della Coppa dei Campioni tra il Goteborg e il Fenerbahce. A scatenare la collera dei media di Istanbul, il fatto che nell’aeroporto della cittadina svedese i doganieri locali avessero perquisito minuziosamente tre giocatori della squadra turca. “Scandalo”, “Annullare l’incontro e rientrare a casa”, “Il governo protesti contro il selvaggio incidente”: questi alcuni passaggi degli articoli usciti in quei giorni. Insomma, bisognava vendicare l’affronto subìto e rendere pan per focaccia ai sostenitori del Goteborg in vista del match di ritorno. Fino al sospetto, appunto, che tra loro potessero annidarsi degli untori in trasferta.
Il primo, ufficiale e controverso, intervento di un organo istituzionale calcistico di prestigio sul tema Aids è datato 1987. Il 20 gennaio scatenò un vespaio di polemiche un vademecum redatto dalla Football Association, la Federcalcio inglese, nel quale furono emanate una serie di regole facoltative per i club d’Oltremanica con lo scopo di arginare il virus dell’Hiv.
Questi i punti contenuti nel decalogo:
1 – In campo o durante gli allenamenti non bevete dalla stessa bottiglia d’acqua e nemmeno dalla stessa bottiglia di champagne per celebrare una vittoria.
2 – Sostituite i bagni nella vasca comune con la doccia individuale.
3 – Medicate le ferite aperte con garza e bende sterili, usando guanti chirurgici.
4 – Evitate di utilizzare secchio d’acqua e spugna per la squadra: sostituiteli con soluzioni antisettiche.
5 – Qualora sia necessaria la respirazione bocca a bocca, praticatela con un boccaglio protettivo.
6 – Evitate di usare in comune con altre persone: tenute di gioco, spazzolini da denti, rasoi bottiglie.
7 – Servitevi di tazze e bicchieri di carta o plastica da gettare una volta utilizzati.
8 – Pulite subito capi di vestiario e oggetti macchiati di sangue.
9 – Riponete il materiale sanitario già usato in contenitori per l’incenerimento.
10 – Nei rapporti sessuali limitatevi a un solo partner, adoperate i profilattici ed evitate il contatto con le prostitute soprattutto nei Paesi dell’Africa centrale e orientale.
Diretto fu il commento del medico federale, John O’Hara: “E’ arrivato il momento di passare alle misure concrete. In passato abbiamo cercato di convincere blandamente i giocatori a smetterla di abbracciarsi e baciarsi per celebrare i gol. Adesso speriamo di riuscirci grazie alla paura”. Secca la replica dell’Associazione dei calciatori professionisti: “Questa è roba da matti – le parole del segretario Gordon Taylor -. Cosa vogliono insinuare? Che noi abbiamo l’abitudine di indugiare nella vasca da bagno con i compagni di squadra o di baciarli con la lingua in bocca?”.
Il 18 novembre 1987 fu la Fifa a scendere ufficialmente in campo contro il problema Hiv. Sollecitata da numerose federazioni nazionali a studiare il modo di prevenire i rischi di contagio durante le partite, la commissione medica del massimo organismo calcistico mondiale partorì l’idea dei parastinchi obbligatori.
Dopo aver ricordato come le ferite alla tibia fossero gli incidenti di gioco più frequenti e che il materiale utilizzato per curarle (in particolare, le famose spugne) fosse sommario e non sterilizzato, la commissione medica scrisse al Comitato esecutivo della Fifa: “Come misura profilattica contro la trasmissione dell’Aids, è indispensabile che l’uso dei parastinchi diventi obbligatorio”. La prima federazione a prendere alla lettera la “raccomandazione” della Fifa fu quella svedese. Nel giugno 1988 la Federcalcio di Stoccolma rese obbligatorio per i calciatori d’ogni ordine e grado l’uso dei parastinchi.
In vista dei Mondiali del 1990 da disputare in Italia, la norma venne rese ufficiale per tutti quanti. I parastinchi, indossati per la prima volta nel calcio nel 1874 da Samuel Widdowson, giocatore del Nottingham Forest, cessavano di essere un accessorio facoltativo, diventavano un elemento obbligatorio e indispensabile per la protezione dei calciatori e venivano codificati nel regolamento ufficiale del gioco. Le immagini di Omar Sivori, Gigi Meroni, Mario Corso, Angelo Domenghini, Hans Peter Briegel, Toninho Cerezo o Gianluca Vialli, con tanto di calzettoni arrotolati fino alle caviglie e nessuna “armatura” a protezione delle gambe, finivano di essere cronaca e diventavano memoria storica.
Emanuele Gatto