Cosa c’è di strano se si parla della vittoria di una squadra formata da alcuni giocatori bianchi e altri neri? Oggi tutte le squadre sono dei giganteschi meltin pot, formate da uomini o donne provenienti da ogni parte del mondo. Ognuno con la propria storia, con le caratteristiche che derivano dall’essere nato in un determinato periodo storico, in un determinato paese. Esseri umani diversi, origini diverse con in comune il fatto di essere calciatori e l’appartenere ad un certo mondo con determinati atteggiamenti estremamente conformisti. Nell’edizione della Coppa d’Africa del 1996 vinse una squadra formata da giocatori bianchi e neri. Che c’è di strano, verrebbe da dire? Quella squadra è il Sudafrica e anche se in migliaia di persone hanno parlato di sport legato all’apartheid è una storia che vale comunque la pena raccontare.
Il Sudafrica è più di ogni altra nazione africana il simbolo del miscuglio culturale e della complessità, con una gran varietà di etnie che hanno in comune il solo fatto di far parte della stessa nazione. La suddivisione principale è quella tra neri (che a loro volta sono suddivisi in nove nazioni) e bianchi, formati principalmente da boeri e discendenti anglosassoni. Già dal 1917 si erano poste le basi per il progetto di segregazione razziale, con il pretesto ipocrita di dare ad ogni etnia la possibilità di vivere secondo la propria tradizione in una fetta di territorio. Nel 1948 il Partito Nazionale vinse le elezioni politiche e i primi ministri Daniel Francois Malan e Johannes Gerhardus Strijdom insieme all’”ideologo” Herdrik Frensch Verwoerd diedero vita ad uno dei più grandi crimini contro l’umanità. Apartheid voleva dire tra le altre cose proibizione dei matrimoni misti, dei rapporti sessuali misti, discriminazione razziale in ambito lavorativo e separazione dei bianchi e dei neri nelle zone abitate da entrambi. Era soprattutto un provvedimento di una minoranza forte, i bianchi, nei confronti dei neri che costituivano più del 79% della popolazione sudafricana. Vennero infatti istituiti i bantustan, ghetti poverissimi sottoposti al controllo del governo sudafricano in cui molte persone di colore erano costrette a trasferirsi e in cui venivano privati di ogni diritto, primo fra tutti quello di essere cittadini dello stato sudafricano.
Impossibile pensare ad un Sudafrica unito in nessun ambito, anche in quello sportivo. La segregazione era presente già negli anni trenta quando operavano contemporaneamente quattro federazioni calcistiche rigidamente suddivise per etnie. Dopo le elezioni del 1948 rimase la federazione ufficiale, la SAFA, che nel 1962 stabilì che in nazionale potevano giocare solo giocatori bianchi.. Inaccettabile, visto che una nazionale dovrebbe essere la rappresentazione dei migliori giocatori di una nazione, non di un’etnia. La Fifa escluse il Sudafrica di fatto fino al 1974 complice anche la decisione della Safa di portare due diverse rappresentative, una formata da soli giocatori bianchi per le qualificazioni ai mondiali del 1966 e una da soli giocatori nei per quelle del 1970.
La riammissione fu una piccola parentesi di due anni: nel 1976 ci furono gli scontri di Soweto, con la rivolta degli studenti di colore in seguito al decreto governativo che impose a tutte le scuole per neri di utilizzare l’afrikaans come lingua paritetica all’inglese. Le proteste vennero soffocate nel sangue, con l’uccisione di più di cinquecento manifestanti e a quel punto l’opinione pubblica non potè più far finta di nulla. In Sudafrica non c’erano infatti grossi interessi economici per i due blocchi durante la guerra fredda poiché non era una miniera dalle uova d’oro nero. Ci si poteva quindi permettere di scandalizzarsi e di ergersi a paladini dei diritti civili. Dopo questo drammatico episodio la nazionale di calcio venne esclusa dalla Fifa, a tempo indeterminato.
A Soweto però ci fu anche un grande evento: alcuni studenti bianchi presero le parti dei loro connazionali e quella presa di posizione fu una delle basi di partenza del processo che portò alla fine dell’apartheid. Da Soweto all’elezione di Mandela come presedente sudafricano passarono però diciotto lunghissimi anni in cui la segregazione era ormai radicata in tutti i sudafricani. Una discriminazione razziale che dura per tantissimi anni diventa purtroppo parte del dna di un popolo. Così un bianco africano nasce con l’appartenenza al proprio gruppo etnico ed è così abituato a considerare i neri una “razza inferiore”. Allo stesso modo un bambino di colore, nato negli anni settanta in Sudafrica, nasce con il disprezzo nei confronti dei bianchi. Questi sono gli effetti di una simile ingiustizia e se ci vuole relativamente poco tempo per creare una dittatura ci vuole molto più tempo per scalfirla nelle radici più profonde, nella scia di odio che lascia, nelle sue manifestazioni più sottili.
Il processo di liberazione del Sudafrica dall’apartheid fu relativamente breve: Mandela fu liberato nel 1990 e nel 1994 vinse le elezioni presidenziali. Come in una grande rivoluzione, nei primi anni novanta in Sudafrica si pensava che tutto fosse possibile e che tutto potesse accadere in brevissimo tempo. Con l’entusiasmo che contraddistingue le grandi rivoluzioni molti sudafricani erano convinti che li avrebbe attesi un periodo di benessere e di crescita, in cui bianchi e neri avrebbero potuto convivere come cittadini di uno stesso stato, come due parti di un tutto che non aveva differenze. Non poteva essere così e così infatti non è stato. Mandela è stato un grande uomo, ma pur sempre un politico che non è riuscito a mantenere tutte le promesse che aveva fatto. Allo stesso modo nel 1996, quando si giocò quella Coppa d’Africa, in Sudafrica ogni questione non era propriamente risolta e si era in quel periodo di transizione in cui vale tutto e in cui si pongono le basi per quello che sarà il futuro. Solo che, nella realtà, molto spesso ci si orienta per definizioni ben costituite e quando l’ordine sociale cambia così rapidamente non si ha ben chiaro il senso da prendere. E’ allora il tempo della confusione, del caos, della cose dette e poi rinnegate, della rivoluzione che si è tanto sognata ma ora che è arrivata è come un gigantesco pongo a cui si deve dare una forma.
Se si parla di sport un’anomalia è rappresentata dal fatto che non fu una vittoria calcistica a rappresentare la rinascita sudafricana. L’anno prima infatti gli Springboks, (soprannome dato alla nazionale sudafricana) vinsero il mondiale di rugby giocato in casa poco dopo l’insediamento di Mandela. In quel caso il neo presidente si interessò in prima persona delle sorti della squadra, consapevole che un’eventuale vittoria avrebbe contribuito a rafforzare l’orgoglio nazionale e lo spirito di unità del paese.
La Coppa d’Africa di calcio fu più una casualità, un regalo del fato. L’edizione si sarebbe infatti dovuta giocare in Kenya ma il paese era al collasso per motivi finanziari e quindi pochi mesi prima rinunciò ad ospitare l’edizione. Il Sudafrica era un paese in piena ascesa e voglioso di mostrarsi al mondo, i mondiali di rugby erano stati un trionfo e, fatto non trascurabile, nonostante gli anni di apartheid il Sudafrica era ed è la nazione più europea del continente nero. Gli anni di segregazione razziale avevano però lasciato il segno, anche nei rapporti con gli altri stati. La Nigeria a metà anni novanta era la squadra africana più forte, capace di mettere in difficoltà l’Italia ad Usa ’94 e di vincere un oro olimpico ad Atlanta ‘96. I rapporti tra Mandela e il dittatore Sani Abacha erano pessimi e così i nigeriani rinunciarono alla competizione continentale, lasciando il loro gruppo nel girone eliminatorio “mozzato”, vista l’impossibilità di trovare una sostituta.
Il Sudafrica si presenta a quell’edizione con un gruppo finalmente eterogeneo, che rappresenta se non altro diversi gruppi etnici della nazione: il portiere Andre Arendse è un discendente degli schiavi importati dagli olandesi, la sua riserva Roger De Sá è invece nato in Mozambico. La retroguardia è composta da due neri, Sizwe Motaung (che morirà di Aids nel 2001) e David Nyath, e due bianchi dagli inglesissimi cognomi, Mark Fish e Neil Tovey. A centrocampo ci sono il biondissimo Eric Tinker affiancato dai due estrosi giocatori di colore: Linda Buthelezi e John «Shoes» Moshoeu, cresciuto a Soweto dove diciotto anni prima era stato toccato il punto più basso e dove probabilmente era iniziata la liberazione dall’apartheid. Altro elemento di spicco è Theophilus “Doctor” Khumalo, vero e proprio idolo delle folle per essere uno dei pochi ad aver avuto esperienza all’estero prima di quella Coppa d’Africa.
In attacco si alternano Shaun Bartlett e Mark Williams al fianco di Phil Masinga, stella della squadra e noto anche in Italia soprattutto per aver più volte giustiziato l’Inter con la maglia del Bari. L’allenatore è Clive William Barker, bianco ed originario di Durban. Anche se il calcio è una seconda scelta e non si sa ancora che entità sia il Sudafrica post apartheid, c’è un grandissimo entusiasmo e al primo incontro contro il decadente Camerun allo stadio di Nascrec arrivano ottantamila spettatori. Ovviamente è vittoria, un 3-0 che non lascia addito ad interpretazioni e che manda in visibilio tutto il pubblico presente. La vittoria con l’Angola spiana la strada per i quarti di finale dove i sudafricani incontrano lo Zambia.
Si gioca ancora a Johannesburg, sotto un diluvio universale: Fish porta avanti i sudafricani, Lazizi risponde ma un minuto dopo ad ergersi ad eroe è il figlio di Soweto, John “Shoes” Moshoeu, che con un gran diagonale brucia il portiere avversario. E’ semifinale, contro l’imbattuto Ghana, che si presenta all’incontro senza la stella Abedì Pelè, squalificato. C’è una nazione a sostenere i “bafana bafana” e di fronte alla spinta di un popolo nemmeno l’avversario più forte può resistere. Altro 3-0 e doppietta per Moshoeu, vero e proprio uomo copertina di questo Sudafrica .La nazione è oramai sulle ali dell’entusiasmo, quello che per decenni sembrava impossibile diventa improvvisamente reale con il fondamentale contributo di un rettangolo di gioco. Giocatori di diverse etnie che giocano con una stessa maglia e per la prima volta sembrano rappresentare un unico popolo. Questo sembra essere il Sudafrica, in quei giorni di inizio 1996 quando “Beeld”, il principale quotidiano in lingua afrikaans, sfodera un titolo in zulu “Yabo Bafana Bafana” (“Sì ragazzi”).
La finale contro la Tunisia è poco più di una formalità, ma ci vogliono settanta minuti per smorzare la tensione prima dell’uno due firmato Mark Williams e Doctor Khumalo. Triplice fischio, il Sudafrica ha vinto: in mezzo al campo tutti si abbracciano, afrikaans, bantu e meticci.. sudafricani. Mandela assiste al suo capolavoro dalla tribuna e a stento trattiene le lacrime. Il calcio, considerato un “passatempo per neri” nelle carceri,è diventato l’emblema dell’unità nazionale. Eravamo però dopo una rivoluzione e si sa, le rivoluzioni sono come dei grandi innamoramenti che spesso generano gigantesche psicosi. E questo, se vogliamo, non era nemmeno la prima fiamma, perché il vero successo era quello della nazionale di rugby. Anni dopo Clint Eastwood ha fatto un film sul trionfo degli Springboks e non su quello dei Bafana Bafana.
Il Sudafrica ha poi provato a creare eventi ad hoc in cui venisse mostrata la completa redenzione, come i mondiali del 2010, quando però agli occhi del mondo si sono mostrate le inevitabili contraddizioni che regnavano nel paese sedici anni dopo l’elezione di Mandela. Questa però è un’altra storia e purtroppo è la realtà dei fatti. Non si può girare una pagina dimenticando l’inchiostro delle pagine lette in passato, non si possono dimenticare più di quarant’anni di segregazione razziale. Resta un abbraccio tra tanti uomini così diversi, un titolo di giornale, un popolo in festa. E un’idea malsana che sembra fare un passo un po’ più rapido verso l’oblio.
Valerio Zoppellaro