
Quando il calcio uruguaiano trasformò una vetrina della FIFA in un atto collettivo di disobbedienza
In Uruguay il calcio non è mai soltanto un gioco. È memoria, mito, identità. È il luogo dove si costruiscono racconti fondativi e dove, a volte, il destino di un paese incrocia quello di una partita. Accadde tra il 1980 e il 1981, quando un torneo nato per celebrare la FIFA e il suo anniversario più simbolico finì per incrinare, dall’interno, il progetto politico della dittatura militare.

Il Mundialito si giocò una sola volta nella storia. Uruguay, dicembre 1980. L’idea era tanto semplice quanto seducente: riunire le nazionali campioni del mondo per festeggiare i cinquant’anni del primo Mondiale, disputato proprio a Montevideo nel 1930. Dietro l’operazione c’era João Havelange, presidente della FIFA, l’uomo che aveva compreso prima di tutti il calcio come grande business globale. Con lui Washington Cataldi, potente dirigente del Peñarol e uomo di fiducia del regime, e la giunta militare guidata da Aparicio Méndez, al potere dal 1973.

Per i militari il Mundialito non era solo sport. Era un’operazione politica. Un palcoscenico perfetto per legittimarsi davanti al mondo e, soprattutto, davanti al proprio popolo. Il piano prevedeva una sequenza precisa: prima il plebiscito costituzionale del 30 novembre 1980, che avrebbe dovuto garantire la continuità del regime; poi il torneo, come grande festa celebrativa del sì.

La propaganda era ovunque. Sui giornali, alla radio, in televisione. “Sì per il progresso, sì per la pace”, ripeteva una canzone studiata per entrare nelle case e nelle coscienze. I sondaggi ufficiali parlavano di una vittoria schiacciante. Nelle carceri e nelle caserme, i prigionieri politici sapevano bene cosa significava quel voto: se il sì avesse vinto, la dittatura si sarebbe consolidata per anni.
Ma l’Uruguay, come aveva già fatto tante volte nella sua storia, scelse la strada più difficile. Il 57,2 per cento dei cittadini disse no alla riforma. A Montevideo il rifiuto fu ancora più netto. Fu una sconfitta politica clamorosa per il regime, inattesa e destabilizzante. La dittatura non crollò, ma perse l’aura di inevitabilità. Per la prima volta, la paura cambiò campo.

Un mese dopo iniziò il Mundialito. Sei squadre, sei colossi del calcio mondiale: Uruguay, Argentina, Brasile, Germania Ovest, Italia e Olanda, invitata come due volte vicecampione del mondo. Havelange inaugurò il torneo lodando il governo uruguaiano e ribadendo la sua formula preferita: “Io non faccio politica, faccio sport”. Intanto, lontano dal campo, il torneo segnava un’altra svolta storica: tra diritti televisivi, alleanze improvvisate e affari internazionali, il Mundialito rappresentò anche il primo passo di Silvio Berlusconi nel grande mercato del calcio globale.

In campo, però, il controllo sfuggì presto di mano. L’Uruguay batté l’Olanda, soffrì, resistette. L’Argentina di César Luis Menotti, con un giovane Maradona e Ramón Díaz, accese il torneo. Il Brasile avanzò con la sua consueta autorità. E come trent’anni prima, il destino decise di rimettere di fronte Uruguay e Brasile in finale.
Il 10 gennaio 1981, allo stadio Centenario, il tempo sembrò piegarsi su sé stesso. Barrios portò in vantaggio la Celeste, Sócrates pareggiò su rigore. La partita scivolava verso la fine. Mancavano dieci minuti quando una punizione dalla destra cambiò tutto. Cross teso, area affollata, il portiere brasiliano a metà strada. Waldemar Victorino si tuffò in avanti, colpì di testa. Gol.

Víctor Hugo Morales lo raccontò evocando Obdulio Varela, il Negro Jefe del 1950, l’uomo del Maracanazo. Come allora, il Brasile cadeva. Ma sugli spalti stava accadendo qualcosa di ancora più importante. La canzone ufficiale del regime venne coperta da un coro spontaneo, nato alla radio e portato sugli spalti. Tra il classico “Uruguay, Uruguay” si fece strada un grido che fino a poco tempo prima sarebbe stato impensabile: “Se va a acabar, se va a acabar, la dictadura militar”.
La banda militare smise di suonare. Il silenzio durò un istante. Poi lo stadio esplose.

La dittatura non finì quella notte. Sarebbe durata fino al 1985, intensificando ancora per anni la repressione nelle università e contro i movimenti sociali. Ma qualcosa si era rotto. Prima nelle urne, poi nello stadio. Il Mundialito, pensato come strumento di propaganda, si era trasformato in uno spazio di disobbedienza collettiva, in un luogo dove il popolo aveva ripreso la parola.

Il trionfo sportivo diede corpo a un sentimento che già circolava sottotraccia. Prima i tergicristalli accesi per strada, come segnale segreto di festa dopo il plebiscito. Poi le piazze, finalmente, senza più bisogno di nascondersi. Un’altra vittoria contro i pronostici. Un altro Maracanazo.
Il primo e unico Mundialito non lasciò stelle sulle maglie né celebrazioni ufficiali. “Non abbiamo una medaglia, non abbiamo niente”, dirà anni dopo Rodolfo Rodríguez, capitano di quella nazionale. Ma lasciò qualcosa di più duraturo: la prova che, in Uruguay, anche una partita di calcio può diventare storia. E che, a volte, il pallone sa dire no dove la politica ha paura di farlo.
Mario Bocchio
