
Storia di un calciatore che non ha mai accettato di diventarlo davvero
Ezio Vendrame è stato un errore necessario del calcio italiano. Un corpo estraneo, un’irregolarità mai corretta. Non perché non ne avesse i mezzi, ma perché non ne aveva il desiderio. In un mondo che chiedeva obbedienza, lui offriva deviazione.
Non era interessato alla carriera, ai numeri, ai traguardi. Gli interessava il gesto. Il momento. L’istante in cui il pallone smette di essere un oggetto sportivo e diventa una possibilità espressiva. Per questo Vendrame è rimasto nella memoria più per ciò che ha fatto vedere che per ciò che ha vinto.

Giocava da attaccante, ma non inseguiva il gol. Anzi, lo considerava una conclusione sbrigativa, quasi fastidiosa. Preferiva il palo, l’assist, la finta inutile. Preferiva sorprendere piuttosto che risolvere. Il calcio, per lui, non era un problema da chiudere, ma una domanda da lasciare aperta.
Negli anni Settanta, quando il gioco stava già iniziando a irrigidirsi, Vendrame rappresentava una frattura. Capelli lunghi, barba trascurata, scelte imprevedibili. A Vicenza e Padova divenne un simbolo non ufficiale: non il migliore, ma il più libero. A Napoli durò poco, perché il suo calcio non era compatibile con l’urgenza del risultato.

Fu spesso definito genio irregolare, ma la definizione è comoda e incompleta. Vendrame non cercava l’eccezione: cercava coerenza con se stesso. Ed è questa coerenza, portata fino all’insofferenza, che lo ha reso marginale e insieme indimenticabile.

Quando smise di giocare, si allontanò senza nostalgia. Scrisse, pensò, allenò ragazzi. Non per formare calciatori, ma per evitare che diventassero troppo presto adulti. Diffidava delle regole imposte dall’esterno e ancora di più delle ambizioni riflessive degli altri.

Vendrame non ha lasciato una scuola, né un’eredità tecnica. Ha lasciato un’idea: che il calcio possa essere anche disobbedienza, che il talento senza disciplina non sia uno scandalo, ma una scelta.

In un’epoca che misura tutto, Ezio Vendrame resta una figura non misurabile. Ed è forse per questo che, oggi più di ieri, continua a mancare.
Mario Bocchio
