Tamburi, curve e libertà
Dic 25, 2025

Dalle gradinate di Vicenza alla Maratona del Torino: le donne che hanno sfidato stereotipi e conquistato il tifo organizzato

Prima che il calcio diventasse intrattenimento, vetrina e contenuto da condividere, lo stadio era soprattutto un luogo di scelta. E per alcune ragazze, tra gli anni Settanta e Ottanta, quella scelta significava andare controcorrente. In curve affollate quasi esclusivamente da uomini, hanno trovato spazio donne che non chiedevano permesso: lo prendevano.

Le battaglie del femminismo negli anni Settanta

Cinzia Toniolo oggi ha poco più di sessant’anni, ma ricorda con precisione l’adolescente che era quando entrò nella curva del Vicenza. Aveva quattordici anni, il tamburo legato dietro le spalle, l’eskimo addosso. Mentre le amiche scoprivano la discoteca, lei scopriva lo stadio. “Non era una moda – ha raccontato – era un modo di vivere”. I pregiudizi non mancavano, ma facevano parte del prezzo da pagare per una scelta che rompeva le convenzioni. In quegli anni il Vicenza di Paolo Rossi accendeva entusiasmi e la curva diventava una comunità in cui si cresceva insieme, senza manuali d’istruzione.

Le S.l.a.s. Donne Ultras. La sigla indica le iniziali delle quattro fondatrici: Susanna, Luisa, Anna e Silvia.

A Torino, intanto, Susanna Penna compiva un percorso analogo. Da bambina trascinava il padre al Comunale, ma più che il campo osservava la Curva Maratona. Non le bastava guardare: voleva stare lì dentro. Con il tempo ce l’ha fatta, diventando una figura simbolica del tifo granata. “Non volevo essere la donna accanto all’ultras – ha spiegato – volevo esserlo io”. Con altre ragazze diede vita a uno dei primi gruppi femminili visibili in curva – S.l.a.s. Donne Ultras – nato quasi per gioco e diventato poi parte integrante dell’organizzazione: striscioni, trasferte, logistica. Un’esperienza vissuta con leggerezza e determinazione, figlia di un’epoca segnata dal post’68 e dalle battaglie per l’emancipazione.

Lo striscione al “Comunale” di Torino

Anche a Bologna la curva non era un territorio vietato. Giusi, ultras dagli inizi degli anni Ottanta, racconta gradoni in cui il criterio di selezione non era il genere ma l’impegno. “In curva contava quello che facevi, non chi eri”. Ha avuto ruoli decisionali, ha guidato il tifo, senza che nessuno pensasse di metterle in discussione il megafono. La cultura ultras, allora, si fondava su regole condivise: fedeltà al gruppo, rispetto delle gerarchie, disponibilità al sacrificio.

Ragazze in Curva Maratona

Più a sud, a Bari, la passione di Valeria Accettura nasce quasi per caso. Un Bari-Juventus di Coppa Italia dei primi anni Ottanta, visto trascinata dai compagni di scuola, segna l’inizio di un legame duraturo. “Vivere la curva significava fare esattamente quello che facevano gli uomini – ha spiegato – assumersi gli stessi rischi”. In cambio, dice, arrivava il rispetto. E anche storie di vita, amori compresi.

Dalla balaustra a Bologna

Quelle donne sono entrate negli stadi in un momento di massima espansione del tifo organizzato, quando la Serie A era al centro del mondo e le curve rappresentavano un nuovo modo di vivere il calcio. Spazi attraversati da ideologie diverse, talvolta opposte, ma capaci di coesistere. Luoghi imperfetti, certo, ma percepiti come inclusivi da chi li abitava davvero.

La presenza femminile nella curva vicentina

Oggi il contesto è profondamente diverso. Le ricerche raccontano un pubblico femminile più ampio, ma anche più legato alla dimensione del consumo. Secondo alcuni studiosi, l’attenzione verso le tifose è stata intercettata dal marketing di un calcio ormai trasformato in prodotto. Le curve, dal canto loro, sono cambiate: dagli anni Novanta in poi hanno subito infiltrazioni criminali, strumentalizzazioni politiche e un controllo sempre più stretto.

Donne ultras anche a Bari

Eppure, per chi ha vissuto la stagione delle origini, ridurre tutto a una questione di mercato è limitante. Quelle pioniere ricordano stadi vissuti come luoghi di appartenenza reale, non di esibizione. Anche episodi recenti di presunto “sessismo da stadio” vengono letti con uno sguardo più complesso: non come esclusione delle donne, ma come conflitto tra chi vive la curva come identità e chi la frequenta come passerella.

Una volta essere ultras voleva dire stare fuori dagli schemi”, il pensiero di Cinzia Toniolo. È forse questa la chiave. Non una questione di genere, ma di scelta. E in quella scelta, tra Vicenza, Torino, Bologna e Bari, molte donne sono arrivate prima degli altri.

Mario Bocchio

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