
Nel 1973 l’Uruguay si giocò il Mondiale mentre il Paese cadeva sotto il regime militare: una Nazionale divisa tra coscienza civile e pallone
Nel giugno del 1973 la Nazionale uruguaiana partì per le eliminatorie mondiali da un Paese ancora democratico e tornò a casa sotto una dittatura militare. In mezzo, uno sciopero generale, la paura, le pressioni politiche e una partita che rischiò di trasformarsi in un atto di ribellione collettiva.


1973, l’Uruguay si trovò sotto il tallone della dittatura
L’Uruguay di Hugo Bagnulo pareggiò 0-0 a Bogotá contro la Colombia e poi vinse in rimonta a Quito contro l’Ecuador, mentre a Montevideo il Parlamento veniva sciolto e il sindacato dei lavoratori, la CNT, proclamava la paralisi totale del Paese. Il calcio, improvvisamente, non era più soltanto calcio.


Il 6 luglio, al Centenario, la sfida con la Colombia divenne un simbolo. Il regime dichiarò l’evento di “interesse nazionale” e lo trasmise in diretta televisiva per svuotare lo stadio. Nelle ombre, però, qualcuno pensò a un gesto clamoroso: spegnere la luce dell’impianto come atto di protesta. L’idea non si concretizzò. La Colombia vinse 1-0 nello stadio simbolo della Celeste e dell’intero calcio charrúa.


Nei giorni successivi le pressioni aumentarono. Alcuni chiesero alla Nazionale di non presentarsi contro l’Ecuador. Il capitano Luis Ubiña fu il destinatario di quelle richieste. Lo spogliatoio discusse fino all’alba, diviso tra responsabilità civica e dovere sportivo.


Due fotogrammi del successo dell’Uruguay in Ecuador
Alla fine l’Uruguay giocò. Vinse 4-0 e si qualificò per il Mondiale di Germania 1974. Ma nulla fu più come prima. La squadra venne sciolta, l’allenatore lasciato a casa, il Paese sprofondò in dodici anni di dittatura.
Quella Nazionale non fu solo una squadra di calcio: fu lo specchio di un Paese costretto a scegliere tra silenzio e coscienza, sotto le luci – mai spente – del mitico Centenario.
Mario Bocchio
