Il giorno in cui il vento di Zeman vinse l’Italia
Dic 17, 2025

Il Foggia che non avrebbe dovuto farcela e invece riscrisse il destino

Non c’è città in Italia che conosca il vento come Foggia. Arriva all’improvviso, scuote le persiane, attraversa le strade larghe della pianura e porta con sé una promessa di rivoluzione. Quando Zdeněk Zeman mise piede in quella terra bruciata dal sole e dalla fame di calcio, nessuno poteva immaginare che un giorno quel vento avrebbe soffiato fino a entrare nella storia. Eppure accadde: una favola nata fuori dai confini del possibile, un sogno che divenne strada, ritmo, coraggio.

Il Foggia di Zeman non era una squadra: era un’idea. Un’idea folle, luminosa, rapidissima. Un attacco totale portato all’eccesso, una musica suonata a volume altissimo mentre il resto d’Italia ascoltava sinfonie prudenti. Si diceva che non si potesse vincere così. Che il 4-3-3 fosse una poesia troppo fragile per reggere le botte del mondo reale. Ma Zeman, con il suo sguardo affilato e la voce bassa, replicava soltanto: “Si gioca per segnare, non per difendersi”.

Il tecnico boemo ai tempi di “Zemanlandia”

E lì, nella città che odorava di grano e asfalto caldo, quella filosofia divenne fede.

La squadra correva come se avesse dentro un motore diverso dagli altri. C’erano giocatori che sembravano usciti da un romanzo d’avventura. Francesco Baiano, il cecchino di area, piccolo e letale; Giuseppe Signori, che partiva da sinistra e diventava un lampo; Roberto Rambaudi, un’ala che non si stancava mai di sfidare il mondo. E poi Igor Kolyvanov, il gigante russo, eleganza e potenza nella stessa falcata. A centrocampo, Shalimov suonava il piano e De Vincenzo correva per due. In difesa, Petrescu e Consagra resistevano, mentre Padalino spingeva come un’onda in piena. Dietro tutti, il giovane Mancini tra i pali imparava a diventare grande.

Stagione 1991-’92, l’undici del Foggia prima del derby vinto contro il Bari in trasferta

Era calcio verticale, feroce, incosciente. Era “Zemanlandia”. Il Foggia segnava tre gol e ne rischiava cinque, ma alla fine ne faceva sei. Le domeniche allo Zaccheria diventavano liturgie: uomini, donne, ragazzini, contadini dei dintorni… tutti arrivavano come a un pellegrinaggio laico. Per vedere il Foggia. Per vedere il gioco che sembrava venire dal futuro.

Igor Shalimov, un russo nel Foggia di Zeman

La corsa cominciò come un sussurro, poi divenne un tuono. Le big del Nord guardavano con sospetto questa squadra che non si inginocchiava davanti a nessuno. Milan, Juve, Inter: tutte caddero almeno una volta sotto la furia del pressing zemaniano. E ogni successo era una scossa che risaliva la pianura, attraversava le case, esplodeva nei bar come un fuoco improvviso.

Arrivò un punto della stagione in cui l’Italia intera smise di ridere. Il Foggia era lì, in alto, a giocarsi qualcosa di importante. Una cosa impensabile. Una cosa mai vista.

Zeman non sorrideva mai. Forse non ne aveva bisogno. Aveva dimostrato che il calcio può essere bellezza, rischio, utopia. Che anche il più piccolo può insegnare una lezione ai giganti. Che il vento di Foggia, se trova il maestro giusto, può diventare tempesta.

Da allora l’Italia intera lo sa: ci sono momenti che appartengono ai potenti, e istanti che appartengono alle leggende. Quello del Foggia di Zeman è di queste ultime. Un racconto impossibile, proprio per questo indimenticabile.

Mario Bocchio

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