
Dai campi polverosi degli anni Venti ai divieti dei Talebani, la storia del calcio afgano è un viaggio tra modernizzazione interrotta, guerre infinite e una nazionale che continua a esistere quasi solo in esilio
Il calcio in Afghanistan non è mai stato soltanto uno sport. È stato un termometro politico, un simbolo di modernità, un bersaglio ideologico. Nato tra le mura aperte all’Occidente del re Amanullah negli anni Venti, sopravvissuto a colpi di stato, invasioni e scomparse quasi totali, oggi vive sospeso fra diaspora e clandestinità, con i Talebani che ne hanno trasformato il pallone in un atto di resistenza.

Negli anni Trenta la Kabul Football Association organizza tornei, la nazionale gioca in India britannica, nel 1948 debutta alle Olimpiadi di Londra, la monarchia finanzia stadi e centri sportivi. L’Afghanistan appare: nel 1928 affiliazione FIFA, dal 1954 all’interno della neonata AFC. È un’epoca di speranza, interrotta nel 1973 dalla caduta della monarchia e nel 1979 dall’invasione sovietica.

Quando Mosca entra a Kabul, i giocatori diventano bersagli. I Talebani li considerano traditori che collaborano con i sovietici, i servizi segreti li sospettano di simpatie islamiste. Molti scappano o smettono. Il calcio diventa espressione di un Paese che implode.

Tra il 1996 e il 2001 i Talebani trasformano lo stadio di Ghazi in un luogo di esecuzioni pubbliche. Lo sport è proibito: il calcio sparisce, i campionati si dissolvono, la federazione è un guscio vuoto. Niente partite, niente nazionale. La FIFA impone il blocco internazionale. L’Afghanistan diventa un deserto anche sportivo.

Dopo l’intervento statunitense, nel 2002 lo sport rinasce. Il Ghazi Stadium viene ripulito dal sangue e restituito al calcio. Nel 2003 la FIFA riammette il Paese, nel 2002 la nazionale torna in campo per la prima volta dopo dieci anni. L’Afghan Premier League, grazie alla TV locale, porta sponsor e pubblico. Nel 2013 la nazionale vince addirittura la SAFF Championship, la Coppa della Federazione calcistica dell’Asia meridionale: è il suo unico titolo.

Eppure la facciata di rinascita nasconde fragilità enormi. L’islamismo radicale considera lo sport un’intrusione occidentale, i Talebani attaccano autobus, minacciano dirigenti, fanno irruzione negli stadi. La federazione è corrotta, i fondi FIFA spariscono, gli accordi sociali sono instabili. Il calcio vive, ma sempre con l’ansia di scomparire di nuovo.

La caduta di Kabul nel 2021 ha riportato il Paese al punto di partenza. Subito tesseramenti cancellati, stadi sequestrati, donne escluse da ogni attività sportiva. La nazionale resta in vita solo perché la federazione, fuggita all’estero grazie al riconoscimento FIFA, continua ad organizzare attività in diaspora: partite in Oman, ritiri in Uzbekistan, amichevoli improvvisate.

In patria, invece, il pallone non rimbalza più. Nessun campionato, nessuna attività ufficiale, nessuna prospettiva. Il calcio esiste solo come memoria.
Oggi l’Afghanistan è affiliato alla FIFA ma non ha una panchina vera, non ha arbitri, non ha vivai, non ha stadi agibili. Ha una nazionale composta perlopiù da giocatori cresciuti in Germania, Olanda, Stati Uniti. Una selezione apolide che indossa i colori di un Paese che non può rappresentare davvero.

Eppure, nonostante tutto, resiste. Ogni gol, ogni partita giocata da una Nazionale in esilio, è un messaggio: il calcio afgano non è morto. È invisibile, disperso, imprigionato. Ma vivo.
E forse, in un Paese dove lo sport è diventato un campo di battaglia culturale, restare vivi è già una forma di vittoria.
Mario Bocchio
