
In lui, più che in tanti altri, il club ha trovato un interprete totale, capace di incarnarne spirito e testardaggine
Non bastano le 799 presenze o le due Coppe d’Inghilterra alzate da capitano per spiegare l’impronta lasciata sull’East End: il legame era viscerale.
La morte di Billy Bonds , a 79 anni, è stata ricordata dal London Stadium con un video che ripercorreva una carriera fatta di interventi puliti, fatica e coraggio. Tra le immagini più forti c’erano gli occhi chiari e determinati che i tifosi cantavano con orgoglio – “six foot two with eyes of blue” – senza curarsi troppo delle misure reali. Al quarto minuto Jarrod Bowen ha deposto la maglia numero 4 sotto la North Stand, un gesto simbolico per salutare un uomo che aveva dato al club più di quanto avesse ricevuto.

Nell’immaginario calcistico degli anni Ottanta, Bonds era l’essenza del giocatore inglese: solido, tenace, capace di unire fisicità e disciplina. Era considerato l’erede naturale di Bobby Moore, un punto di riferimento in campo e nello spogliatoio. Aveva già ceduto la fascia ad Alvin Martin nel 1984, ma il West Ham continuava a richiamarlo, finché un ginocchio provato non gli suggerì di smettere. E in quella carriera di ferro, paradossalmente, aveva anche saltato un’intera stagione per colpa di un alluce.

Dal Charlton era arrivato nel 1967 per 50.000 sterline, intuizione preziosa di Ron Greenwood. Si era imposto subito da terzino destro, ma quando il ruolo cambiò fisionomia fu spostato a centrocampo per affiancare Trevor Brooking. Brooking era la seta, Bonds la carta vetrata. Proteggeva, ranicchiava, recuperava palloni. Eppure aveva anche gol nei piedi: nel 1973-’74 fu addirittura capocannoniere del club.

Quando nel 1978 il West Ham scivolò in Seconda Divisione, Bonds rimase senza esitazione. Fu lui, l’anno successivo, a sollevare la FA Cup con una squadra che militava ancora al piano inferiore. Mancò per un soffio l’esordio in Nazionale: un contrasto con il portiere Phil Parkes gli procurò delle costole rotte proprio alla vigilia di un’amichevole con il Brasile.

Bonds non fu solo un giocatore. Nel 1988 entrò nello staff, e nel 1990 prese la guida della prima squadra. Portò gli Hammers in alto, fino alla semifinale di FA Cup decisa da un’espulsione fulminea, e poi di nuovo in massima divisione dopo una retrocessione. Nel 1994 chiuse la stagione al tredicesimo posto nella nuova Premier League, ma lasciò il club poco prima dell’inizio del campionato seguente, sostituito da Harry Redknapp: una conclusione amara che non ha mai smesso di pesargli. Le sue esperienze con Millwall, QPR e Reading furono deviazioni senza radici.
Il West Ham, però, non lo ha mai dimenticato. Lo ha eletto Hammer of the Year in quattro occasioni e nel 2019 ha intitolato a lui la East Stand del London Stadium. Un riconoscimento naturale per un uomo che non ha solo servito il club: lo ha definito.
Mario Bocchio
