Il portiere che fermò l’Italia e venne travolto dalla storia di Haiti
Nov 23, 2025


Dal miracolo del 1974 all’esilio politico: l’incredibile parabola dell’uomo che difese una nazione in campo e poi dovette salvarsi due volte nella vita

Quando Haiti debuttò ai Mondiali del 1974, nessuno avrebbe immaginato che il suo protagonista più inatteso sarebbe stato un portiere poco conosciuto e quasi anonimo: Henry Francillon, l’uomo che per quarantacinque minuti riuscì a fermare l’Italia di Mazzola, Facchetti, Riva e Chinaglia. Nel primo tempo di quella partita, ogni assalto azzurro si infranse contro le sue mani. Per un Paese abituato a vivere nell’ombra della dittatura, quel temporaneo 0-0 parve un regalo impossibile.

Un’immagine delle qualificazioni mondiali di Haiti nel 1974

La strada che condusse Haiti in Germania era stata creata più dalla volontà politica che dal merito sportivo. I Duvalier – prima “Papa Doc”, poi il giovane “Baby Doc” – avevano trasformato la qualificazione ai Mondiali in una vetrina del regime, sostenuto dagli Stati Uniti per contrastare la vicina minaccia comunista di Cuba. Pretendendo che l’intero girone si giocasse a Port-au-Prince, si erano garantiti un vantaggio decisivo. I calciatori, molti dei quali cresciuti in condizioni difficili, furono improvvisamente proiettati in un contesto internazionale: automobili nuove, mesi di ritiro in Europa, un entusiasmo che sembrava quasi surreale.

1974, la nazionale haitiana giunge in Germania Ovest

A rendere possibile quella trasformazione era stato un tecnico italiano, Ettore Trevisan. Le sue idee moderne – niente libero, esterni che rientrano, difensori che attaccano – avevano cambiato la mentalità della squadra. Francillon, in particolare, era cresciuto sotto la sua guida: Trevisan vedeva in lui una sicurezza rara, un portiere aggressivo e coraggioso.

Gigi Riva al tiro, nel tentativo di perforare la porta haitiana

Ma quando il sorteggio mise Haiti nello stesso girone dell’Italia, l’italianità dell’allenatore divenne sospetta agli occhi del regime. Le pressioni, gli attacchi sui giornali, perfino irruzioni notturne nella sua casa lo convinsero a lasciare il Paese. Haiti arrivò ai Mondiali senza il suo vero architetto.

Antoine Tassy, con gli occhiali, che prese il posto dell’italiano Trevisan sulla panchina di Haiti

Il nuovo commissario tecnico, Antoine Tassy, gestì la squadra con rigidità quasi militare. Il ritiro tedesco fu una reclusione: i giocatori vivevano in un ostello, uscivano solo per allenarsi e una sola volta per una visita allo zoo. Eppure, contro l’Italia, un frammento di magia prese forma. A inizio ripresa Haiti segnò il gol più incredibile della sua storia; per sei minuti, Port-au-Prince fu attraversata da clacson, spari in aria e danze improvvisate. Quando Rivera ristabilì la parità, la pioggia già stava trasformando il campo in una trappola per una squadra abituata alla terra secca. Finì 3-1 per gli azzurri, ma Francillon uscì da quella partita come un eroe inatteso.

Francillon posiziona la barriera haitiana nella gara contro l’Italia

Le altre due gare – il 0-7 con la Polonia e l’1-4 con l’Argentina – riportarono Haiti sulla terra. E al ritorno in patria fu ancora più evidente che l’entusiasmo era già evaporato. Baby Doc evitò di ricevere la squadra, il calcio fu relegato ai margini della vita pubblica.

Haiti si allena all’Olympiastadion di Monaco di Baviera

Molti giocatori capirono che i loro privilegi erano svaniti. Francillon, che aveva guadagnato una certa fama, trovò un contratto in Germania con il Monaco 1860. La vita bavarese, però, fu per lui un mondo estraneo: una villa troppo grande, un quartiere silenzioso, un freddo che sembrava non finire mai. L’allenatore lo giudicava incapace di comandare la difesa perché non parlava tedesco. Alla fine, venne lasciato andare.

L’undici italiano che affrontò Haiti. In piedi, da sinistra : Giorgio Chinaglia, Francesco Morini, Gianni Rivera, Luciano Spinosi, Dino Zoff, Luigi Riva. Accosciati, sempre da sinistra: Fabio Capello, Romeo Benetti, Tarcisio Burgnich, Giacinto Facchetti e Alessandro Mazzola

Tornato ad Haiti, Francillon sfruttò la sua notorietà per intraprendere la carriera politica. Divenne senatore: un ruolo che sembrava il coronamento di un destino iniziato quel giorno contro l’Italia. Ma anche questa volta il vento cambiò. Nel 1990 subì un attentato: un proiettile lo convinse a fuggire di nuovo, questa volta a Boston, dove iniziò una nuova vita come allenatore in un college americano.

Ancora Francillon, in uscita volante su Leslaw Cmikiewicz nella gara contro la Polonia

La diaspora della nazionale del ’74 seguì le stesse traiettorie spezzate: Sanon trovò rifugio in Belgio, altri si dispersero tra Europa e Stati Uniti. Solo pochi rimasero sull’isola. Poi, nel 2010, il terremoto cancellò fisicamente gli ultimi simboli di quell’epoca: lo stadio della qualificazione divenne un campo profughi, la sede della federazione crollò con dentro decine di persone.

L’argentino Enrique Wolff toccato duro dagli haitiani

Oggi Haiti festeggia il suo secondo Mondiale. Ma il nome di Francillon resta legato a quell’unico lampo che illuminò un Paese intero. Per un’ora, il suo corpo volante sulla linea di porta aveva protetto non solo un risultato, ma un sogno collettivo. Un sogno troppo fragile per durare, ma abbastanza forte da non essere mai dimenticato.

Mario Bocchio

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