Zigoni vive ancora qui
Nov 20, 2025

Il fuoriclasse sregolato che scelse Verona, rifiutò l’Inter e mantenne la promessa di riportare l’Hellas in Serie A

Basta camminare per Verona, attraversare piazza Bra nelle mattine d’inverno o infilarsi nelle osterie dei quartieri alti, per capire che certi amori non muoiono. Hanno solo cambiato pelle, si sono fatti ricordi, aneddoti, motti che i vecchi tifosi ripetono come preghiere laiche. E quando salta fuori il nome di Gianfranco Zigoni, gli occhi s’illuminano ancora, a volte di nostalgia, altre di pura incredulità.

Ah, il Zigo!” sospira qualcuno, appoggiando il bicchiere di frizzantino sul tavolo rovinato dal tempo. “Lui voleva morire in campo, così gli avrebbero intitolato il Bentegodi. Te lo giuro, l’ha detto davvero”. E non sai se ridere o credere che, in fondo, in quell’iperbole c’era tutta la grandezza sregolata di un uomo che il calcio lo interpretava come un romanzo di formazione: ogni partita un capitolo, ogni dribbling una pagina strappata.

Gianfranco Zigoni in pelliccia panchina durante una gara del Verona

Ma al di là delle leggendarie stravaganze, il rapporto tra Gianfranco Zigoni e Verona è stato un legame profondo, appassionato, quasi sentimentale. Un affetto reciproco che lo ha trasformato in un idolo indiscusso. Zigoni considerava Verona “il posto più bello” in cui avesse mai giocato, una città che lo capiva, che gli perdonava tutto, che lo voleva così com’era: geniale, indisciplinato, unico.

E quando arrivò la chiamata dell’Inter, allora potenza calcistica e magnete naturale per ogni talento, Zigo disse no. Preferì restare a Verona, accettare la Serie B, continuare a giocare per quella gente che lo adorava. “Io qui sto bene” ripeteva, quasi seccato all’idea di dover spiegare l’ovvio. E mantenne anche una promessa: riportare il Verona in Serie A. Lo fece davvero, sudando sui campi della cadetteria, diventando il simbolo di una squadra che risaliva con la faccia dura dei provinciali e la fantasia dei predestinati.

Zigoni batte Albertosi e segna il primo gol del Verona nella partita Verona-Milan 2-2 del 25 aprile 1976

A Verona Zigoni non è mai stato solo un giocatore. È stato un gesto, un’immagine, un simbolo della libertà dentro a un calcio che per definizione ti vuole disciplinato. Come quella volta – che i tifosi raccontano come se fosse ieri – in cui si presentò in panchina con una pelliccia addosso, elegante e provocatore, mentre sugli spalti si scatenava una risata collettiva. “Pareva un attore del cinema”, dice uno che lo vide. “Ma quando entrava… mamma mia. Faceva quello che voleva”.

Gianfranco Zigoni, espulso, ha una crisi di nervi: lo trattiene il massaggiatore Mario Tasson , mentre il compagno Maddè lo minaccia

Già, perché dietro all’apparente follia c’era la sostanza. Zigo era un fuoriclasse vero, uno di quelli che vedevano il gioco due secondi prima degli altri. Aveva il passo sornione del gatto di strada e il talento abbondante dei predestinati. Bastava un suo tocco per far sembrare semplice l’impossibile, come se avesse una porta segreta verso un calcio più puro, più istintivo, meno ingabbiato.

Per questo, ancora oggi, gli anziani tifosi se lo portano nel cuore come un amico ribelle che ha segnato un’epoca. “Forse non gli intitoleranno mai il Bentegodi”, concede un signore con la sciarpa dell’85, l’anno dello storico scudetto, “ma qui, nel nostro stadio di ricordi, ci gioca ancora tutte le domeniche”.

E mentre esci dall’osteria, Verona sembra sospesa tra passato e presente. Nel vento che scende dalla collina, ti pare quasi di sentire un coro lontano, un boato antico. E di scorgere, per un istante, una figura che avanza con passo fiero e sorriso irriverente e la follia buona dei geni: Gianfranco Zigoni, l’uomo che scelse Verona e che Verona non ha mai smesso di scegliere.

Mario Bocchio

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