
Squadre spostate di notte, arbitri al servizio del regime, fughe e vendette: il calcio nella Germania dell’Est fu una macchina di propaganda e controllo. Ma alla fine anche dietro il Muro vinse la libertà
Erano anni in cui il calcio non apparteneva al popolo, ma allo Stato. Nella Germania dell’Est del dopoguerra, dietro il Muro, il pallone diventò un’arma politica: decidere chi giocava, dove e per chi, era prerogativa del regime. La potenza sportiva della Dynamo Dresda fu talmente grande da spaventare chi governava: per questo, in una notte del 1954, la squadra fu “trasferita” a Berlino e ribattezzata Dynamo Berlino, per volere diretto di Erich Mielke, il capo della Stasi, la polizia segreta del Paese. Da allora, il calcio dell’Est divenne sinonimo di controllo.

La Dynamo Berlino vinse dieci campionati consecutivi, dal 1979 al 1988, grazie anche a una rete di favoritismi e timori. Gli arbitri sapevano bene cosa rischiavano se non “collaboravano”: un errore poteva significare la fine della carriera o peggio. L’episodio simbolo fu nel 1986, quando un rigore inesistente assegnato nei minuti di recupero permise alla Dynamo di mantenere il primato. Quel “rigore della vergogna” segnò l’inizio della fine: persino nel mondo chiuso della Ddr la finzione cominciava a incrinarsi.
Non fu solo Dresda a essere saccheggiata. Persino l’Empor Lauter, squadra dei Monti Metalliferi, venne spostata nottetempo a Rostock, per soddisfare le ambizioni di un alto funzionario del partito. Tutto era funzionale alla propaganda.

Chi provava a ribellarsi rischiava la vita. Come Lutz Eigendorf, stella della Dynamo Berlino, che nel 1979 approfittò di una trasferta in Germania Ovest per fuggire. Per la Stasi divenne un traditore. Gli portarono via la moglie, lo spiavano in ogni momento, finché nel 1983 non morì in un misterioso incidente stradale. Solo dopo la caduta del Muro si scoprì che era stato un omicidio mascherato.
La paura era ovunque. Anche Matthias Sammer, futuro Pallone d’Oro, confessò anni dopo di essere stato “costretto” a firmare con la Stasi per poter giocare nella Dynamo. Al contrario, suo padre Klaus, allenatore stimato, fu punito per i legami familiari con l’Ovest: bastava avere un parente di là per essere considerato sospetto.
La nazionale della Ddr rappresentava il volto buono del regime. Poca fantasia, tanta disciplina. Ma il 22 giugno 1974 arrivò il momento irripetibile: Germania Est contro Germania Ovest ai Mondiali di Amburgo. Novanta minuti di ideologia, presentati come “lotta di classe”. Vinse l’Est con il gol leggendario di Jürgen Sparwasser, che entrò nella storia. “Se sulla mia tomba scrivessero Amburgo 1974, tutti saprebbero chi sono”, disse poi. Eppure, anche lui finì per fuggire, nel 1988.


La Dynamo Berlino 1979-’80 sulle figurine
Il controllo arrivava ovunque. Persino una scommessa innocente poteva rovinare una carriera: Hans-Jürgen Kreische, compagno di Sparwasser, pagò con l’esclusione dalla Nazionale l’azzardo di aver regalato una cassa di whisky a un ministro della Germania Ovest dopo aver perso una scommessa.

Il calcio dell’Est era una prigione mentale prima che sportiva. Solo con il crollo del Muro, il 9 novembre 1989, quella gabbia si aprì davvero. Pochi giorni dopo, Andreas Thom divenne il primo calciatore dell’Oberliga a passare legalmente in Bundesliga.

Da allora il calcio tedesco si è unificato, ma l’eredità dell’Est è quasi sparita. Restano solo la Union Berlino, squadra “del popolo” sopravvissuta al regime, e la RB Lipsia, simbolo moderno del capitalismo sportivo. Dalle Ferrovie alla multinazionale, un cerchio chiuso nel modo più paradossale.
In Germania esiste una parola, “fremdschämen”, che significa provare imbarazzo per le azioni altrui. È il sentimento perfetto per chi guarda oggi a quegli anni e ricorda quando anche il calcio, dietro il Muro, doveva obbedire al potere.
Mario Bocchio
