Chocolatín e il sogno spezzato della Bolivia: la generazione che fece la storia
Nov 16, 2025

Dalla rivoluzione culturale di Azkargorta alla tragedia di Ramiro Castillo: gli anni d’oro della “Verde” e il loro prezzo umano

A 3.640 metri sul livello del mare, nello stadio Hernando Siles di La Paz, Bolivia e Brasile si riscaldavano nei minuti che precedevano l’inizio della finale della Copa América 1997. Ramiro Castillo, soprannominato “Chocolatín” per la sua corporatura minuta e il tono della pelle, era nell’undici titolare boliviano. Tuttavia, una notizia cambiò per sempre la vita di Castillo e, di conseguenza, la storia calcistica di un intero Paese: suo figlio era stato ricoverato d’urgenza per un’epatite. Il calciatore corse al suo fianco, lasciando la squadra profondamente scossa. Nonostante una buona partita e molte occasioni – tre pali colpiti – la temuta selezione brasiliana, guidata da Ronaldo Nazário, finì per imporsi per 1-3. La Bolivia rimase senza Copa América, “Chocolatín” perse il figlio due giorni dopo e il 18 ottobre, dopo tre mesi di sofferenza, venne trovato impiccato con una cravatta.

Ramiro Castillo, “Chocolatín”

Un episodio tragico che non fa che accrescere la leggenda di una delle migliori generazioni della storia del calcio boliviano. Un gruppo di giocatori che, quattro anni prima, sotto la guida di un allenatore basco dal baffo prominente, era riuscito a ottenere due dei maggiori traguardi sportivi del Paese in poco tempo. Xabier Azkargorta, laureato in medicina, ricevette la chiamata della Nazionale boliviana nel 1992, mentre lavorava nella sua clinica di Barcellona. In precedenza aveva allenato squadre di primo livello come Espanyol, Siviglia e Tenerife. Ma la sfida sudamericana era totalmente diversa da tutto ciò che aveva affrontato fino ad allora. Si trovò davanti un Paese che non rispettava i calciatori, anzi: li disprezzava. Inoltre, c’erano molti altri fattori che influenzavano il loro rendimento: cattiva alimentazione, scarsa igiene, infrastrutture pessime, collegamenti difficili, variazioni climatiche.

Xabier Azkargorta nel 1994 con un poster che mostra i giocatori convocati per il Mondiale

Il lavoro di Azkargorta non si limitò all’aspetto calcistico. La sua influenza in Bolivia va ben oltre. Fu una questione socioculturale: il cambiamento di una mentalità conformista radicata nel Paese. Una trasformazione strutturale del calcio boliviano come quella che “El Bigotón” aveva in mente sarebbe stata impensabile senza un fattore chiave: i risultati. Se la selezione non si fosse qualificata al Mondiale del 1994, dopo varie goleade e una storica vittoria sul Brasile, arrivando persino a minacciarne il primo posto, la gente avrebbe continuato a considerare gli sportivi come dei malandrini. Anzi, dopo la Copa América 1997, organizzata in casa, il calcio tornò a stagnare e non volle proseguire il progetto iniziato dal tecnico basco.

Marco Etcheverry

Ciononostante, quell’epoca è stata la più gloriosa de “La Verde” dopo l’unico titolo di Copa América conquistato nel 1963. Per alcuni anni, la Bolivia idolatrò giocatori tradizionalmente disprezzati dalla società. Questa generazione era formata da calciatori come “El Diablo” Etcheverry, considerato il migliore della storia del Paese; Milton Melgar, l’unico boliviano ad aver giocato con Boca e River; “Platini” Sánchez, l’unico a segnare sia in Coppa dei Campioni sia ai Mondiali; o il già citato “Chocolatín” Castillo, la cui vita terminò tragicamente dopo aver contribuito a uno dei più grandi traguardi sportivi della Bolivia. Ancora una volta, il calcio torna a essere la cosa più importante tra le cose meno importanti. La felicità di un intero Paese attraverso questo sport meraviglioso impallidisce di fronte alla vita di un bambino.

Mario Bocchio

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