
Dal Nacional al Mundial di Messico ’70: la storia del “cerebro” che diede il tocco di classe al calcio uruguaiano e segnò il primo gol celeste in una Coppa del Mondo indimenticabile
Nato sulle sponde del Río Negro, nella città di Mercedes, il 4 agosto 1947, Ildo Enrique Maneiro sembra destinato al pallone fin da bambino. A sedici anni entra nel Nacional, dove resterà per otto stagioni, dal 1965 al 1973, diventando uno dei simboli del club di quegli anni. Con il Nacional conquista quattro campionati uruguaiani consecutivi e una Copa Libertadores nel 1971, coronando il sogno di suo padre, tifosissimo dei Tricolores, scomparso pochi mesi dopo quella vittoria storica a Lima.

Il “cerebro” – come lo chiamavano i compagni – era il giocatore che dava al gioco il tocco di distinzione: classe, visione, precisione nel tiro e una straordinaria intelligenza tattica. Il 14 febbraio 1969, nella finale della Copa de Montevideo, mette il suo nome tra i marcatori nel 3-1 del Nacional sul Peñarol.
Dopo l’esperienza in patria, Maneiro gioca tre stagioni con l’Olympique Lione, mantenendo quella eleganza che lo distingueva in campo. Ma il suo nome resterà per sempre legato alla Celeste, con la quale disputò circa quaranta partite e partecipò al Mundial di Messico 1970, segnando il primo gol dell’Uruguay contro Israele.
“Non avevo giocato le qualificazioni” ricorda, “ero in tournée con il Nacional, ma Zezé Moreira, il nostro allenatore, vide qualcosa in me e parlò con il tecnico della nazionale. Quando tornai, cominciarono a convocarmi per le amichevoli e poi per la spedizione in Messico”.

Il gruppo celeste si preparò con rigore, alternando periodi di acclimatazione a Quito e Bogotá, sotto la guida del professor Langlade e del tecnico Juan López, “un leader spirituale che ci trasmise l’idea che l’impresa del 1950 poteva essere ripetuta”.
L’Uruguay si presentò con un gruppo forte e compatto, formato in gran parte da giocatori di Nacional e Peñarol. Ma non mancavano i problemi: Pedro Rocha, la stella della squadra, soffriva di una pubalgia misteriosa, allora quasi impossibile da diagnosticare, e Cascarilla Morales rientrò dopo un’operazione al menisco con un recupero eroico.
Dopo aver superato Israele e pareggiato con l’Italia, la Celeste si esaltò nei quarti di finale contro l’Unione Sovietica, vincendo ai supplementari in una partita epica: “Centoventi minuti di sacrificio, ma dimostrammo che la preparazione era stata perfetta. Non ci fu un solo filo d’erba non calpestato”, ricordò Maneiro, con orgoglio.

La semifinale con il Brasile resta una ferita aperta. La FIFA, contro il regolamento, costrinse l’Uruguay a scendere a Guadalajara, dove il caldo era insopportabile. “Avvisarono a mezzanotte che dovevamo alzarci alle cinque e mezza. Viaggiammo in un autobus senza aria condizionata, col caffè freddo in mano. Fu penoso”.
Nonostante tutto, l’Uruguay disputò un grande primo tempo, ma subì il ritorno di una costellazione di stelle: Pelé, Jairzinho, Rivelino, Gerson. “Perdemmo contro la squadra più forte della storia del calcio, ma con onore”.
Nella finale per il terzo posto contro la Germania Ovest, la Celeste cadde ancora, ma lasciò il Messico con la dignità intatta. “Eravamo offesi, perché per noi era campioni o niente. Solo col tempo abbiamo capito che arrivare quarti non era una vergogna, ma un orgoglio”.
Anni dopo, ricordando quell’avventura, Maneiro parlava ancora con emozione: “Rappresentare il paese, ascoltare l’inno con la bandiera davanti e dare fino all’ultima goccia di sudore… era un’esperienza spirituale. Quando finì la partita con l’URSS, Juan López mi abbracciò e mi disse: ‘Hai calpestato ogni zolla di quella cancha’”.
E poi, con un sorriso, aggiunge l’immagine più bella di quel Mondiale: “Dal campo vidi Pelé fingere il tiro, Mazurkiewicz rallentargli la corsa e il pallone sfilare via. Fu uno dei gesti più poetici che il calcio abbia mai visto”.
Mario Bocchio
