
Storia di un talento libero, nato mezzala e diventato pensatore del calcio
Sarà per quell’orizzonte che invita a immaginare cosa si nasconde oltre la linea del mare, ma certe anime nascono già rivolte verso l’altrove. Giovanni Galeone apparteneva a quella stirpe inquieta, fatta di curiosità e disobbedienza. Con un cognome simile, il mare era destino.

Nasce a Napoli nel 1941, in una famiglia borghese che, pur tra le ristrettezze del dopoguerra, coltiva libri e opinioni forti. Il padre, ingegnere all’Ilva, è un liberale; la madre, monarchica, frequenta i salotti della Napoli bene. In casa si leggono Il Borghese, Evola e Guareschi: un ambiente colto ma conservatore, contro cui Giovanni imparerà presto a reagire.

Quando il padre viene trasferito a Trieste, il giovane Galeone scopre un mondo diverso: la frontiera orientale, le scritte bilingui, i profughi istriani e le donne che raccolgono carbon coke per scaldarsi. A Servola, quartiere popolare della ferriera, impara la strada, la solidarietà, il gioco. Gioca con i ragazzini dai cognomi slavi, si appassiona al basket portato dai soldati americani e al pallone, naturalmente. Lì, tra dialetti e carbone, nasce il suo primo amore vero: il calcio.

Alla Ponziana dimostra talento e intelligenza tattica. È una mezzala con visione da regista, più artista che soldato: tecnico, elegante, insofferente alle regole. Con quella maglia, ancora dilettantistica, arriva persino a vincere l’Europeo juniores del 1958, da capitano dell’Italia che batte l’Inghilterra ad Highbury. In squadra ci sono Albertosi, Cera, Rosato, Facchetti e Corso: una generazione d’oro.
Sembra l’inizio di un’ascesa, invece comincia il giro d’Italia delle categorie minori: Monza, Arezzo, Avellino, Pesaro, Nuoro, Entella, Monfalcone. Nel 1966 approda all’Udinese, in Serie C, e lì rimane per sempre. A 32 anni, dopo l’ennesimo sogno di promozione sfumato, mantiene la promessa: “Se non saliamo, smetto”. E così fa.

Non è un dramma. Galeone non è mai stato uno sportivo cieco alla vita. Legge Sartre e Brecht, frequenta i comizi di Pajetta e le manganellate dei cortei contro Almirante. Passa estati a Grado con Capello, Riva e Reja, tra sabbiature, partite in spiaggia e cene interminabili. È lì che incontra Pasolini: due intellettuali del pallone, attratti dallo stesso romanticismo popolare.
“Con Pierpaolo giocavamo spesso”, ricordava. “Aveva un carisma naturale, un fascino che non cercava”.

Galeone diventa allenatore e, da lì in avanti, filosofo del calcio. Dal Friuli al Pescara, dal 4-3-3 arioso e spregiudicato alle sue conferenze pungenti, porta avanti un’idea di gioco e di pensiero libera, irriverente, personale. È il maestro di Allegri, Giampaolo, Gasperini e di molti altri che gli devono più del semplice mestiere.

Restò per tutta la vita legato al Friuli, dove possedeva una barca e trascorreva le estati. Era tornato da poco a salutare il Cjarlins Muzane, squadra di Serie D allenata da un suo allievo. L’uomo del mare, del dubbio e della libertà se n’è andato a 84 anni, lasciando in eredità un calcio che pensava, parlava e respirava come lui: libero, indisciplinato, umano.
Mario Bocchio
