
Dal sogno di un bambino di Carbonera ai riflessi acrobatici sotto i cieli di guerra, fino alla solitudine del dopoguerra: la parabola fragile e luminosa di Giuseppe Moro, il Caravaggio tra i pali
Nel cuore della Roma del 1965, tra le pareti austere della redazione del Corriere dello Sport, nacque una storia di calcio e di vita che odorava di umidità e tabacco. L’ex portiere Giuseppe “Bepi” Moro, volto dimenticato del calcio italiano, raccontava la sua esistenza a un giovane cronista, Mario Pennacchia. Ne venne fuori un’autobiografia in dieci puntate, Una vita disperata, che svelava le ombre e la poesia di un uomo sospeso tra talento e tormento.



Partiamo da sinistra. Moro, portiere del Treviso, nel 1940. Nella Fiorentina 1947-’48. Con la maglia della Nazionale
Moro era nato nel 1921 a Carbonera, nel Trevigiano. Da bambino giocava da solo con un pallone comprato a fatica, e sognava Planicka, il portiere cecoslovacco disegnato sulla copertina del suo quaderno di scuola. Ragazzo vivace, più incline alle avventure che ai libri, si guadagnò presto il soprannome di “cavalletta” per la sua capacità di saltare da un vigneto all’altro.


Bepi Moro, l’arte della plasticità
Durante la guerra guidava camion di soccorso in Sicilia, fuggendo dagli aerei in picchiata con tuffi che sembravano già parate. “Fu il mio vero allenamento da portiere”, avrebbe poi detto. Tornato alla vita civile, riprese a giocare nel Treviso e, in pochi anni, raggiunse la Serie A. Esordì con la Fiorentina nel 1947 e, grazie a prestazioni strepitose, arrivò anche in Nazionale.


Il suo talento era cristallino ma fragile. Dopo Firenze passò a Bari, dove parò tre rigori consecutivi e divenne un idolo. Poi Torino, nel dopo-Superga, per colmare un vuoto impossibile. Al Mondiale del 1950 difese la porta azzurra, ma la spedizione in Brasile segnò la fine del suo sogno mondiale.

Seguì una carriera itinerante tra Lucchese, Sampdoria, Roma e Verona: 271 partite in Serie A, 9 in Nazionale, e un primato che resta leggenda, 46 rigori su 63 neutralizzati, un’impresa mai più eguagliata.


Bepi Moro era un portiere d’istinto, un artista del rischio. Alternava voli miracolosi a errori inspiegabili, come se un demone lo abitasse. Gianni Brera lo descrisse così: “Alternò favolose prodezze a errori così madornali da sembrare voluti. Ebbe il destino di finire malamente, giusta la leggerezza con cui visse il suo mestiere”.

Dopo il ritiro, la sua vita sprofondò. Un bar fallito, i risparmi svaniti, la casa venduta, lavori saltuari tra le Marche e la Tunisia. Allenò squadre di provincia, vendette caramelle, cercò di reinventarsi.
Ma la gloria non perdona chi la perde. Persino allo stadio Olimpico gli fu negato l’ingresso gratuito, perché aveva collezionato “solo” nove presenze in azzurro, una in meno del minimo richiesto.

Morì nel 1974, a soli cinquantatré anni, in silenzio. Dino Zoff, allora portiere della Nazionale, mandò la sua maglia a Treviso in segno di omaggio: “Era degno di indossarla come nessun altro”.

Giuseppe Moro, il portiere che volava come un pittore barocco tra luce e ombra, resta oggi il simbolo di un calcio dove il talento sapeva ancora farsi destino.
Mario Bocchio
