
Il più grande talento del calcio guatemalteco del Novecento: tra poesia, gol e passione, la leggenda di un numero dieci che fece sognare un Paese intero
Pochi nomi risuonano con tanta nostalgia e affetto nel cuore dei tifosi guatemaltechi quanto quello di Oscar Enrique “El Conejo” Sánchez. Per molti è semplicemente il migliore di tutti i tempi, il simbolo di un calcio che non esiste più, fatto di talento puro, di passione e di appartenenza. Un calcio giocato con il cuore, non per i contratti o le luci dei riflettori.

Nato a Città del Guatemala il 15 luglio 1955, Sánchez crebbe con un pallone ai piedi e un istinto naturale per la porta. La sua carriera iniziò nel 1975 con gli Ases del Minar, piccola squadra di Tiquisate, dove in una sola stagione mise a segno 24 reti. Quei numeri bastarono per attirare l’attenzione del Clomunicaciones, il club con il quale avrebbe scritto le pagine più belle del calcio guatemalteco.


Il mito di un numero dieci che fece sognare il Guatemala
Con i “cremas”, “El Conejo” vinse cinque titoli nazionali (1978, 1980, 1981, 1982 e 1985) e divenne capocannoniere della Liga Nacional per quattro stagioni consecutive, dal 1976 al 1979. Era un attaccante rapido, elegante, dotato di una tecnica sopraffina e di una visione di gioco che lo rendeva irresistibile. Ogni suo tocco di palla sembrava un colpo d’arte, ogni dribbling un gesto di poesia.

Nel corso della sua carriera vestì anche le maglie di Municipal, Aurora, Cobán Imperial, Galcasa, Izabal, Tipografía e Escuintla, ma fu sempre con il Comunicaciones che trovò la sua vera casa. I tifosi lo ricordano ancora come il calciatore capace di cambiare le partite da solo, con una finta, un passaggio filtrante o un gol impossibile.

A livello nazionale, Sánchez disputò oltre 250 reti ufficiali, cifra che lo colloca ancora oggi al secondo posto tra i migliori marcatori della storia del Guatemala, dietro soltanto a Juan Carlos Plata. Ma più dei numeri, fu la sua classe a farlo entrare nella leggenda.

quanto quello di Oscar Enrique “El Conejo” Sánchez
Nel 2000, la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio (IFFHS) lo riconobbe come il miglior calciatore guatemalteco del XX secolo. Nella graduatoria dei grandi del Nord e Centro America, si piazzò al ventunesimo posto, accanto a nomi come l’americano Marcelo Balboa e il canadese Robert Lenarduzzi. Accanto a lui comparivano anche altre due glorie guatemalteche: Juan Carlos Plata e Jorge Roldán.

Con la Selección Nacional, “El Conejo” visse momenti memorabili. Il più importante arrivò nel 1975, quando fu protagonista della qualificazione del Guatemala ai Giochi Olimpici di Montreal 1976: una pagina storica, un sogno realizzato per un Paese che viveva il calcio come una speranza collettiva.

Chi lo vide giocare parla di un calciatore “magico”, capace di trasformare un campo polveroso in un teatro. “Era grande tra i grandi”, scrisse il cronista Oscar Fajardo Gil, che lo ricordava come l’ultimo grande numero 10 del Guatemala, un uomo che giocava “per amore del calcio e della patria”.
Il destino, però, è stato crudele. Il 25 luglio 2019, alle prime ore del mattino, Oscar Enrique Sánchez morì a causa di un arresto cardiaco, pochi giorni dopo un intervento per l’impianto di un pacemaker. Il suo cuore, che aveva regalato emozioni a un intero Paese, smise di battere per sempre.

Il figlio Omar Sánchez raccontò che il padre aveva iniziato a sentirsi male dopo l’operazione e che, nonostante un secondo intervento, non riuscì a superare la notte. La notizia colpì il Guatemala come un lutto nazionale: nei bar, negli stadi, nelle radio, tutti parlavano di lui.
“El Conejo è ora nel cielo – scrisse Fajardo Gil – saltando di nuvola in nuvola, dribblando con una palla fatta di cotone, segnando gol all’eternità”.

Forse è così che bisogna ricordarlo: un uomo leggero, capace di restare sospeso nel tempo. Un calciatore che giocava per la bellezza del gioco, per il piacere di creare, per regalare sogni a chi lo guardava.

Oggi, a distanza di anni, Oscar Enrique Sánchez resta una leggenda. Non solo per i gol, i titoli o i riconoscimenti, ma perché ha rappresentato l’anima più pura del calcio guatemalteco. Un uomo che seppe rendere il pallone un linguaggio universale e il campo da gioco un luogo di poesia.
Mario Bocchio
