Quando Garrincha fece ballare il pallone a Sacrofano
Ott 21, 2025

L’angelo dalle gambe storte, due volte campione del mondo, finì a incantare i campetti di provincia alle porte di Roma. La storia dimenticata di un genio che visse come giocava: inseguendo la felicità, anche quando non c’era più

C’è un piccolo paese incastonato tra la Flaminia e la Cassia, poco più di ottomila anime e un campo di calcio circondato da pini e colline. Si chiama Sacrofano.

Un giorno del 1970, in quel campo di terra battuta, scese in campo il più grande dribblatore della storia del calcio. Non era una leggenda da bar, ma una verità talmente incredibile da sembrare un sogno: Manoel Francisco dos Santos, detto Mané Garrincha, due volte campione del mondo con il Brasile, giocava davvero lì.

Garrincha insieme a un giovane Pelé


Aveva la maglia bianca del Sacrofano e un corpo che portava addosso tutta la fatica della vita. Le gambe piegate, la pancia gonfia, gli occhi persi. Ma quando arrivava il pallone, il tempo tornava indietro. L’uomo scompariva, e rimaneva solo il ragazzo di Pau Grande, che con una finta faceva cadere a terra i difensori più forti del mondo.

Alla nascita gli dissero che non avrebbe mai camminato. La poliomielite gli aveva storto le gambe, una più corta di sei centimetri, il bacino sbilenco, la colonna vertebrale incurvata. Ma quando il piccolo Manoel vide un pallone, cominciò a muoversi in un modo che nessun medico avrebbe potuto spiegare: non correva, danzava.

Sua sorella Rosa lo soprannominò “Garrincha”, come un uccellino del Mato Grosso: goffo, storto, ma con un canto meraviglioso. Quel nome gli rimase per sempre.

Insieme a Elza Soares. Siamo nel 1958 e il Brasile ha appena vinto la sua prima Coppa Rimet



Nel Botafogo di Rio de Janeiro, dove arrivò nel 1953, trasformò la sua menomazione in arte. Le gambe piegate, i movimenti imprevedibili, le finte in serie: tutto diventava parte del suo stile. Era impossibile capire dove sarebbe andato: a destra, a sinistra, o direttamente verso la porta. Gli avversari lo inseguivano e finivano per inciampare, letteralmente, nei propri passi.

Tra il 1958 e il 1962, il mondo scoprì il miracolo. Con Pelé formò la coppia più luminosa della storia del calcio: due ragazzi che giocavano come se la vita fosse ancora un cortile. In Svezia vinsero il primo Mondiale, in Cile il secondo, e in quel torneo Garrincha fu capocannoniere, miglior giocatore e simbolo del Brasile felice. Quando giocavano insieme, la Seleção non perse mai.

Mané con la maglia della Seleção


Ma la felicità, per lui, era sempre fragile. Fuori dal campo era come un bambino: ingenuo, vulnerabile, incapace di gestirsi. Beveva fin da ragazzino, fumava, rideva con tutti e si fidava di chiunque. Dopo i trionfi, arrivarono i guai: gli incidenti stradali, i figli sparsi per il Brasile – quattordici, si dice -, le liti, i debiti, le notti alcoliche.

L’unico amore vero fu Elza Soares, la stella della musica brasiliana. Lei, ribelle e sensuale, lui, dolce e autodistruttivo. Si amarono come due incendi, tra passione e tragedia. Quando il Brasile dei generali militari cominciò a guardarlo con sospetto, Garrincha fuggì. Nel 1970 partì per l’Italia, inseguendo un’illusione: ricominciare.

A Roma trovò rifugio a Torvaianica, sul mare. Elza cantava nei locali della capitale; lui, ormai ex calciatore, collaborava con l’Istituto Brasiliano del Caffè. Guadagnava poco, viveva di poco. Ma il pallone, quello, non riusciva a lasciarlo.

Garrincha, il settimo in piedi da sinistra, nel Scrofano dell’allenatore Dino da Costa


Un giorno, tra i bar della città, ritrovò Dino da Costa, vecchio compagno del Botafogo, che in Italia aveva fatto fortuna con la Roma e la Juventus. In quel momento allenava una squadra di paese, il Sacrofano, nella Promozione laziale. Dino lo vide, si commosse, e gli offrì una via di fuga: “Vieni a giocare con noi. Anche solo per divertirti.

Non poteva tesserarlo, il regolamento lo vietava. Ma in quegli anni, nei campetti di periferia, bastava poco per aggirare le regole. Così Garrincha tornò in campo. Giocava tornei amichevoli, partite di beneficenza, sfide tra dilettanti.

La mortale finta di Garrincha, fotografato nel Botafogo


Per lui si muovevano folle intere: operai, ladri, ragazzi curiosi, tutti venivano a vedere l’uomo che aveva fatto piangere i difensori inglesi. Raccontano che in una quadrangolare a Mignano Monte Lungo, segnò due gol direttamente da calcio d’angolo, uno col destro a girare sul primo palo, l’altro sull’altro lato. I presenti ancora oggi giurano che il vento, quel giorno, lo seguiva.

“Era un fenomeno anche con la pancia” ricordano i compagni. “Beveva, era triste, ma quando vedeva un pallone tornava bambino. Nessuno lo prendeva”.

Nel 1972 tornò in Brasile. Giocò ancora qualche partita con l’Olaria, ma il corpo non lo seguiva più, e la vita era ormai altrove. Non c’erano soldi, non c’erano applausi. C’era solo la solitudine.

Rio de Janeiro, 17 febbraio 1980. Sul carro della Mangueira, tra la folla in festa, Garrincha guarda lontano: la maglia del Brasile addosso, lo sguardo perso altrove, dove il Carnevale non arriva. Mané morirà tre anni dopo



Provò a disintossicarsi, a insegnare calcio ai bambini poveri, ma l’alcol gli aveva scavato dentro. Nel gennaio del 1983, dopo tre giorni di sbronze nei bar di Bangu, morì a cinquant’anni. Sulla lapide, nel cimitero di Magé, poche parole: “Qui riposa colui che fu la Gioia del Popolo, Mané Garrincha”.

A Sacrofano, ogni tanto, qualcuno lo nomina ancora. I più anziani sorridono e dicono: “Io l’ho visto giocare. Qui, sul nostro campo”. Nessuno ride, nessuno li prende per pazzi. Perché è tutto vero. Il più grande dribblatore di sempre passò davvero da lì, tra le case basse e le colline, e per qualche mese fece ballare il pallone come ai tempi di Rio.

Garrincha non è mai stato un uomo comune. È stato un poeta involontario, che scriveva versi con le caviglie e raccontava la libertà meglio di chiunque altro. Non cercava la gloria: cercava la felicità, come quella colomba che chiese di liberare un giorno al presidente del Brasile, dopo un trionfo mondiale. Forse, in fondo, quella colomba era lui stesso: storto, fragile, eppure capace di volare più in alto di tutti.

Mario Bocchio

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